sabato 10 dicembre 2011

The Masseur

Il digitale come tempera alienante della realtà, povera, non solo perché ritrae una porzione delle Filippine che fa della mancanza la propria amara essenza, ma soprattutto perché la vera povertà non risiede nella presenza o meno di denaro in tasca, anche il cliente-scrittore, e perciò persona agiata, sarà parsimonioso nel pagare Iliac, piuttosto nel tesoro invisibile che dovrebbe risiedere all’incirca sotto la gabbia toracica all’altezza dello sterno. Senza cuore perché in un bordello travestito da massaggeria per omosessuali i sentimenti non sono ammessi, chi va lì paga per usufruire dei servizi proposti dai vari ragazzi, si può fare e dare tutto, tranne i baci, quelli sono riservati alle proprie fidanzate (volgari donnacce con la lattina di birra fedele compagna), a meno che non si scenda a compromessi, e un bacio è il prezzo da pagare per non essere segnalati all’avido entreneuse, senza che, e qui sta il risvolto più tetro, vi sia il benché minimo appesantimento di coscienza.

Il digitale come ponte visivo fra due momenti di una vita, quella di Iliac, resi in maniera atemporale, sconnessa, della stessa sostanza di cui sono fatti gli incubi, in cui si mischiano le epifanie primordiali dell’esistenza, e qui pesa con forza sotterranea ma persistente la mancanza della figura paterna: nonostante sia stato avvertito da quell’sms il giovane protagonista continuerà il suo lavoro nella casa d’appuntamenti noncurante delle gravi condizioni in cui versa il proprio padre. Di nuovo un’aridità interna, la più potente, che trova un’esplosione contenuta all’interno del montaggio intermittente, come se andasse avanti per piccole scosse: il tavolo dell’obitorio – il lettino del massaggio; il piede del morto – quello del cliente; e la coincidenza conclusiva che in prima battuta raggela – l’identificazione del genitore defunto in un tipo qualunque, uno a cui interessa solo soddisfare i propri bisogni sessuali in una vita piena d’ombre (lo pseudonimo femminile con cui scrive romanzi rosa) –, ma che subito dopo intenerisce rivelando la natura di un ragazzo ancora capace di piangere e forse di sognare (lo sguardo invidioso verso la coppia felice), ma che nell’imbuto fetido in cui sta scivolando non trova appigli, solo pareti ricoperte di scivolosa merda che lo spingono sempre più in basso.

Il digitale come lama penetrante che Brillante Mendoza plasma inquadratura dopo inquadratura, con una ragguardevole pazienza nel creare micro-paesaggi dall’intimo design; che sia un’accecante cerimonia funebre o le stanzette del centro, il risultato non muta: esposizione calibrata, avvolta in una costante tenebrosità, che in estrema economia scolpisce nella pece un vero dramma sociale ancor prima che famigliare.

Il viaggio di Oltre il fondo nel cinema nero di Brillante Mendoza inizia da qui, e non poteva cominciare meglio.

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