Fa un po’ specie pensare che anche in Messico le persone siano maledettamente sole.
Uno si immagina le chilometriche spiagge di Acapulco o i colorati sombreri che nascondono sonnacchiosi uomini baffuti, dimenticando – forse – le bidonville e la sovrappopolazione, ma vabbè, l’idea che abbiamo di questo paese è filtrata dai depliant turistici che arrivano nella vecchia Europa e perciò il Messico deve essere un paese tutto mare e sorrisi. Le cose però non sembrano stare così, almeno per Michael Rowe, un australiano che chissaccome e chissapperché ha avuto l’idea di smentire le nostre supposizioni mostrandoci la provincia del Mondo, una specie di malinconica globalizzazione relazionata da illustri(ssimi) colleghi: Tsai Ming-liang, Bruno Dumont, Sharunas Bartas, Lisandro Alonso. Cambiano gli scenari, la lingua e/o il clima, ma gli occhi da cui sgorgano le lacrime che se ne fregano della mdp, sono sempre quelli. Maledettamente uguali.
E allora ci ritroviamo davanti una Laura di cui non sappiamo niente ma che basta un’inquadratura per capire tutto: lei che si masturba guardando una coppietta felice oltre le tapparelle, dove la casa di fronte segna un parallelo drammatico fra la felicità, e quindi la vita, e la disperazione, vedasi la morte che aleggia prepotente nel loculo-appartamento: la foto del padre defunto, il 29 febbraio come data della Fine, ultimo, tragico sacrificio anticipato da una lettura beffarda, L’arte di amare.
Non apparirà dunque strano se la vita sentimentale di questa Laura sia una merda. Incontri occasionali post-discoteca, malinconici amplessi in cui prima si scopa e solo dopo ci si chiede i reciproci nomi.
Attraverso l’immobilismo registico, aderente in maniera pedissequa all’esistenza di Laura, si comprende che quando entra in scena Arturo la protagonista giunge ad un giro di boa importante che la convince a fare una scelta drastica, quella di morire.
Mentre il tubo catodico emette radiazioni solitarie con pubblicità di efficienti vibratori, Laura sprofonda in un apparente baratro di perversione che invece nasconde da parte dell’uomo uno spiffero di tenerezza (“con chi è stata la tua prima volta?”) non recepita dalla donna, e non per altezzosità, ma probabilmente perché non più in grado di comprenderla.
Uno si immagina le chilometriche spiagge di Acapulco o i colorati sombreri che nascondono sonnacchiosi uomini baffuti, dimenticando – forse – le bidonville e la sovrappopolazione, ma vabbè, l’idea che abbiamo di questo paese è filtrata dai depliant turistici che arrivano nella vecchia Europa e perciò il Messico deve essere un paese tutto mare e sorrisi. Le cose però non sembrano stare così, almeno per Michael Rowe, un australiano che chissaccome e chissapperché ha avuto l’idea di smentire le nostre supposizioni mostrandoci la provincia del Mondo, una specie di malinconica globalizzazione relazionata da illustri(ssimi) colleghi: Tsai Ming-liang, Bruno Dumont, Sharunas Bartas, Lisandro Alonso. Cambiano gli scenari, la lingua e/o il clima, ma gli occhi da cui sgorgano le lacrime che se ne fregano della mdp, sono sempre quelli. Maledettamente uguali.
E allora ci ritroviamo davanti una Laura di cui non sappiamo niente ma che basta un’inquadratura per capire tutto: lei che si masturba guardando una coppietta felice oltre le tapparelle, dove la casa di fronte segna un parallelo drammatico fra la felicità, e quindi la vita, e la disperazione, vedasi la morte che aleggia prepotente nel loculo-appartamento: la foto del padre defunto, il 29 febbraio come data della Fine, ultimo, tragico sacrificio anticipato da una lettura beffarda, L’arte di amare.
Non apparirà dunque strano se la vita sentimentale di questa Laura sia una merda. Incontri occasionali post-discoteca, malinconici amplessi in cui prima si scopa e solo dopo ci si chiede i reciproci nomi.
Attraverso l’immobilismo registico, aderente in maniera pedissequa all’esistenza di Laura, si comprende che quando entra in scena Arturo la protagonista giunge ad un giro di boa importante che la convince a fare una scelta drastica, quella di morire.
Mentre il tubo catodico emette radiazioni solitarie con pubblicità di efficienti vibratori, Laura sprofonda in un apparente baratro di perversione che invece nasconde da parte dell’uomo uno spiffero di tenerezza (“con chi è stata la tua prima volta?”) non recepita dalla donna, e non per altezzosità, ma probabilmente perché non più in grado di comprenderla.
Con Año bisiesto (2010) Rowe offre un ennesimo e doloroso frame del mondo contemporaneo. Camminando sul filo della gratuità, questo regista sonda in maniera convincente un malessere intimo e interno che trova nella sgraziata attrice Monica del Carmen una credibile interprete.
Nulla si inventa in questo piccolo film che parla di grandi cose, ma la variazione sul tema piace assai, non foss’altro perché finalmente viene fornita una valida risposta a tutta la sofferenza rappresentata: basta abbracciare il proprio fratello per poter voltare pagina.
Nulla si inventa in questo piccolo film che parla di grandi cose, ma la variazione sul tema piace assai, non foss’altro perché finalmente viene fornita una valida risposta a tutta la sofferenza rappresentata: basta abbracciare il proprio fratello per poter voltare pagina.
questo me lo avevi segnalato un po' di tempo fa e sono riuscito a vederlo, ma onestamente non mi ha preso troppo.
RispondiEliminale scene exploitative, in un contesto minimale e ripetitivo come quello portato in scena, mi sono sembrate le punte di un iceberg (un discorso) affrontato troppo superficialmente.
in secondo luogo (ma forse è un problema mio) lo sguardo di Rowe mi è sembrato lo sguardo compiaciuto di un occidentale sulle miserie del terzo mondo, e questo mi ha allontanato ulteriormente.
poi, magari, ero io ad essere particolarmente incattivito quella sera... se lo rivedo con un altro umore cambio idea ;)
Mi ricordo, era saltato fuori il discorso parlando di Japòn.
RispondiEliminaTi dico, l'ho visto mesi e mesi fa e quindi mi ricordo ben poco, per risponderti almeno al primo appunto, mi vien da dire che non ho trovato il sesso scabroso né mero miele per le api, anzi pur mostrando/esibendo avvertivo più che altro un suggerimento, uno stimolo da dare allo spettatore il quale può trarre da solo le sue conclusioni.
Ben lungi da definirlo un filmone, ma una sufficienza da queste parti se la piglia :)
si direi sufficiente....non molto di più
RispondiEliminasì, magari è stata una sensazione mia: più che superficialità poteva trattarsi, come scrivi tu, di suggerimenti.
RispondiEliminaresto dubbioso, ma lo mette comunque tra i film che prima o poi rivedrò ;)