lunedì 12 dicembre 2016

In the Basement

Reduce da una trilogia che aveva nell’ultimo capitolo Paradise: Hope (2013) il punto più infelice di tutta la filmografia seidliana a causa di un incanalamento narrativo troppo convenzionale dotato di occhiolini gratuitamente provocatori, Ulrich Seidl ritorna ad una dimensione a lui più consona, quella che va a costituirsi nella sua tipica visione frontale: guardare dritto per dritto, come pergamene ammuffite srotolate sullo schermo, per guardare dietro la patina imbiancata della borghesia austriaca. È un atto che il regista viennese compie da tempo immemore e che negli anni ha ricalibrato verso tematiche riconducibili all’esistenza del quotidiano, come se l’ectoplasma di Josef Fritzl sempre aleggiasse tra un fotogramma e l’altro. Presa coscienza di un tale tragitto autoriale, continuo ad avere dubbi di non poco conto sul cinema di Seidl al giorno d’oggi. Prendiamo Im Keller (2014), certo la provocatorietà, l’oscenità, lo “stile”, eppure a chi scrive non è bastato. In fondo In the Basement non è altro che il seguito ideale di Animal Love (1996) in cui Seidl compiva un simile blitz domestico svelatore dei lati nascosti di persone cosiddette normali. Quindi assistere ad una sorta di rimasticatura di un film girato quasi vent’anni prima non può che spegnere qualunque fiamma euforica, non solo, a mano a mano che lo sviluppo di Im Keller si fa evidente, emerge un problema nodale che val la pena enucleare.

A priori c’è una contrapposizione troppo lapalissiana tra quello che l’umanità di Seidl è nella vita normale e quello che diventa (probabilmente è il contrario: diventare prima, essere dopo) nella cantina di casa. Ovvero: così strutturata l’opera non ha un’organicità degna, si trasforma pian piano in un giochetto dove si spinge il pedale della morbosità in modo sconsiderato tanto che non si è più di fronte ad una possibile esplorazione del dietro le quinte di talune esistenze, ma, agli antipodi, si è vittime anche un po’ tediate dell’aberrante panoramica proposta. L’assenza di un senso unificante, o della sua innegabile debolezza per chi riesce comunque a ravvisarlo, non fa che sminuire il realizzabile del film castrato da una politica fallace: mostrare il lato oscuro dell’uomo attraverso una catena sconnessa di depravazioni fa precipitare il tutto nelle mortali sabbie mobili della prevedibilità. Non è tanto che si può prevedere quale sarà la perversione di turno, quanto sapere con esattezza che ci verrà illustrata una perversione tout court. La regolarità del flusso para-narrativo uccide l’interesse di quanto raccontato che, per dirla tutta, vista l’epoca internettiana non è nemmeno così sconvolgente, rimane al massimo l’autoapprovazione di un regista che per il mio vedere e sentire è solo preoccupato a piazzare davanti alla mdp un po’ di scandalo che possa incrementare la sua fama ed il suo conto corrente.

2 commenti:

  1. Parole sante come sempre.
    Più fastidioso del cinema di Seidl ci sono solo i suoi fanboy.

    ps- visto noche, sonoro pazzesco e dialoghi raggelanti ! Ma alcune cose (molte a dire il vero) non mi sono chiare, devo rivederlo almeno una seconda volta per darti un parere più approfondito, comunque la prima impressione è positiva :D

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  2. A me Seidl fino a Import/Export piaceva anche, poi come ho scritto in Hope sono troppo cambiato io e al contempo è troppo poco cambiato lui, vabbè amen.
    Su Noche pucciato come è nel buio del bosco è normale che non ci sia niente di chiaro, e nemmeno una seconda visione penso che potrà illuminarti più di tanto, cosa che, per me, va benissimo così :)

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