Hajdu abbandona il fare
pantagruelico di Bibliothèque Pascal (2010) e presenta
Mirage (2014) per quello che è: un film orribile.
Sarebbe interessante sapere perché questo regista ungherese è
passato da un’opera scoppiettante, piena di intuizioni tecniche e
narrative, ad una robetta come Délibáb che
sembra il precipitato di un cinema con cui non si ha proprio più
voglia di confrontarsi. Sì, come le recensioni in Rete
rimarcano Mirage è lento e silenzioso, due connotati
che non per forza lo fanno entrare in un’area elitaria, perché
in realtà il nucleo è di cinema ammuffito, palla di
ragnatele inconsistente; un po’ come Tarantino e McQueen
Szabolcs Hajdu si concentra su un tema che, sorprendentemente, è
proliferato in molte delle produzioni americane degli ultimi anni
[1]: lo schiavismo. In sintesi: un uomo di colore in fuga solitaria
nella puszta ungherese (è Isaach De Bankolé visto in Manderlay [2005] e The Limits of Control [2009]) finisce
nelle grinfie di un negriero 2.0. Da qui si snodano situazioni di una
banalità oltraggiosa come le cattiverie della banda, la fuga
impossibile, il flirt con la donna del capo. Se parificato al film
precedente Mirage sembra
provenire da un altro pianeta, precisamente il pianeta sala-friendly.
Su IMDb è catalogato come “western”, ed in effetti c’è
un che del genere, ma parliamo di inezie come quando il protagonista
entra nel bar-saloon o nel finale con l’uscita trionfale a cavallo,
per tutto il resto si naviga in una melmosa perplessità.
Si
centra il bersaglio se si dice che Mirage non ha
un’identità. Il sottoscritto, alla lettura della sinossi,
auspicava che il film potesse lanciarsi nella metafora ripercorrendo
i sempre attuali scenari dell’immigrazione,
bastano pochi minuti, però, a capire che si sceglieranno altre
strade piuttosto che l’impegno politico. All’inizio il grottesco
signoreggia ed illude: Hajdu sfilaccia le ragioni senza
tematizzare un bel niente, memore del dramma sportivo White Palms
(2006) getta nel calderone insulti razzisti verso i calciatori (e lo
fa con una sequenza insensata e slegata), la crudeltà
impersonata da una gang improbabile con un boss ancor più
improbabile, una farlocca deriva sentimentale pretestuosa, e poi
scene action che non reggerebbero il confronto nemmeno con un
prodotto televisivo in prima serata, e il bene che sconfigge il male,
e no. Ma proprio no. Non
vorrei risultare ripetitivo ma fatico a capacitarmi del cambio di
rotta del regista, sarà anche una mia sopravvalutazione di
Bibliothèque Pascal dettata da un debole
personale verso un cinema che pur avendo i piedi per terra sa volgere
lo sguardo alla surrealtà, sarà, ma in merito a Délibáb
permane un’evidenza che sono pronto a dichiarare incontrovertibile:
questo è un brutto, ma davvero brutto, film.
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[1]
Il copyright di tale osservazione appartiene al critico Giulio
Sangiorgio. Si rimanda ai suoi scritti per una disamina più
approfondita. Comunque, oltre ai due registi sopraccitati va anche
aggiunto l’Anderson di The Master
(2012).
pensa che ho avuto io la sciagurata idea di tradurlo...una vera merda anche se non consideriamo i trascorsi di Hajdu :(
RispondiEliminaTenendo conto del film successivo, che sulla carta non promette niente di buono, direi che con Hajdu siamo già ai saluti.
RispondiEliminamanco ero a conoscenza di un altro film dopo questo...ho visto ora il trailer e purtroppo temo tu abbia ragione :/ anche se dopo il tradimento di Fliegauf niente mi fa più effetto da questo punto di vista...:(
RispondiEliminaTi riferisci a Womb?
RispondiEliminami riferisco a tutto quello che ha fatto dopo Tejut, Liliom osveny compreso
RispondiEliminaSecondo me con Just the Wind qualcosina ha recuperato rispetto a Womb. Niente di eclatante comunque. L'ultimo lo visionerò appena possibile.
RispondiEliminasi certo Just the wind non è un brutto film cosi come non lo è liliom osveny ma c'è comunque un abisso rispetto ai suoi primi lavori...ormai ha cambiato decisamente rotta verso qualcosa di più ammiccante ai vari festival ...insomma un nuovo dealer ce lo possiamo sognare !
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