sabato 18 febbraio 2017

Lontana quella voglia di morire

In questa città piovono tumori invisibili dal cielo, mio fratello ne aveva beccato uno che gli si era annidato nello scroto, di notte sentiva un polipetto malefico strozzargli il testicolo destro, a me piace molto passeggiare sulla spiaggia di inverno quando il vento che sento addosso mi ricorda i tuoi capelli, nonna dopo la malattia si è trasferita definitivamente da noi, prima era una donna pia e retta, adesso passa le giornate sulla poltrona viola del soggiorno a bestemmiare (“porcoddioporcoddioporcoddio”), papà è andato in pensione da poco e prende millequattrocento euro al mese, è triste e depresso e non dorme da mesi, il cuore gli si è spostato a destra mentre a sinistra gli è spuntato un piccolo uovo bianco, oltre che in spiaggia amo andare nella vecchia libreria del signor L. perché lì tutti i libri sugli scaffali sono amici che mi danno pacche sulla spalla, anche il signor L. è depresso ma lo è in modo più sereno, sostiene che ormai la sua vita l’ha fatta e che prenderà quello che verrà, dopo la chemioterapia mio fratello è rimasto impotente, ieri sera tornando a casa l’ho visto nel letto con il pollice in bocca e un orsacchiotto sotto l’ascella, al mattino mando curriculum per trovare un lavoro, al pomeriggio cammino per le strade che sono l’album della mia malinconia, alla sera l’ultima cosa che guardo è un pupazzo con la nostra foto stampata sopra, ho un amico che fa l’astronomo e dice che sulla Luna ci sono sterminate metropoli abitate da pallidi manichini con delle fattezze umane, il giorno che moriremo l’anima trasmigrerà in quei manichini ed una volta che anche lì il nostro tempo sarà finito passeremo una porzione non misurabile di anni come rocce marziane fino a che le briciole di noi stessi si trasformeranno in batteri nella Grande Macchia Rossa di Giove, e via così fino alle enormi cavallette nere di Plutone per poi ricominciare dall’inizio, da Mercurio, in un ciclo che non ha fine, a volte nonna cambia tipologia di bestemmia (“dioccanedioccanedioccane”), un altro mio amico ha detto: “veniamo schizzati fuori da una fica e passiamo il resto della nostra vita a cercare di rientraci”, ogni tanto ci prende l’idea di salire fin sul promontorio e ficcarci due dita in gola per vomitare delle palle di pelo nerastre e schiumose, un tizio al bar racconta sempre che da giovane fece il giro dell’Europa e che durante il suo periplo aveva con sé un libro così pesante da risultargli una zavorra insostenibile visto il cammino da compiere, ma era un libro bellissimo e allora lo leggeva e strappava lo leggeva e strappava per renderlo più leggero, dice sempre che vorrebbe rileggerlo ancora una volta, e allora io dico compratelo, e lui no, rifarò lo stesso giro per cercare tutte le pagine strappate, accadrà un giorno che l’uovo covato nel petto di mio padre si schiuderà e da lì, attraverso la sua bocca, sciameranno miriadi di corvi neri che come una macchia umbratile volteggeranno nel cielo fino ad arrivare al sole e coprirne tutta la circonferenza esterna in modo da farlo diventare un immenso occhio infuocato che ci guarderà imponente da lassù, ho sognato di essere un produttore di musica elettronica che vive a Berlino in un bilocale non lontano dal Checkpoint Charlie, al venerdì sera prendo la bici per andare a suonare al Berghain dove chiudo i miei set con questo pezzo, all’alba, uscendo dal locale con l’aria berlinese che mi ghiaccia le narici, sento scorrere sotto le ruote una strada che non è più una strada ed io sono felice perché tu sei a casa sepolta sotto il piumone ed io entro piano con un sibilo nelle orecchie e mi spoglio per scivolare sotto e domattina è sabato e potremo dormire fino a mezzogiorno, nel bacino idrico che alimenta la città vive l’ultimo esemplare di scimmia acquatica del pianeta, è devastata dal dolore perché un gruppo di cacciatori ha trucidato la sua compagna per mangiarsela abbrustolita, piange rannicchiandosi su una roccia che affiora dal lago, la testa affonda nelle zampe pinnate, vista dall’alto, dalle stelle, è un bambino-lontra che ha perso la mamma, la mamma non c’è più, non c’è mai stata, adesso credo sia una roccia di basalto sulla superficie di Venere, quando si disgregherà fino a scomparire ritornerà sulla Terra ed io spero ancora di esserci, la nonna ha smesso di dormire ed è sempre impegnata a cantilenare il suo empio mantra (“diostronzodiostronzodiostronzo”), “stai tranquillo che domani passa che le nostre donne si faranno più sode per noi, stai tranquillo che gli eroi non passano mai e ci sarà sempre qualcuno da idolatrare”, era bello andare insieme alla Lidl e vedere nei parcheggi i cammelli delle mogli marocchine o i tuk-tuk di quelle filippine e tradurre l’amore nel fare la spesa e provare serenità in un cospicuo risparmio nei confronti di commisurate compere alla Coop, sognando il nonno che è mancato quando ero bambino sento perfettamente la sua voce, non riesco più a vedere il viso né il corpo, solo quella calda voce di caffè e caramelle Elah e penso che in fondo, tra le pieghe del cervello, sotto qualche ondulazione carnosa, un reticolo di sinapsi ha memorizzato per sempre quelle bonarie frequenze e che l’unico modo che ho per riascoltarle è accendere l’interruttore onirico, io so chi era mio nonno, ma non ho idea, invece, di chi era il mio bisnonno: perché il tempo diluisce i legami consanguinei? E io? Sarò ricordato un giorno dai miei pronipoti? Cosa resterà di me?

E poi ho un segreto… ssshhh… mi raccomando, non ditelo a nessuno! È che ogni mezzanotte, poco prima che le quattro avvenenti streghe inizino a danzare intorno al rogo di bambini bruciati nel cavedio del palazzo, mi trovo sdraiato nel solito letto e… l’attimo seguente: puff! Riesco a vedermi dall’alto, sospeso nell’aria della stanza come un pesce che nuota nel mare e, semplicemente, riesco a volare, via, lontano, lontanissimo, volteggio sopra i tetti della città per poi scendere in picchiata ad un palmo dall’asfalto e sentirne l’odore dopo un temporale tropicale, e avvertire al contempo lo schiocco delle mamme che baciano i loro bambini prima di fare la nanna e le preghiere delle anziane vedove nelle enormi case vuote in cui si consumano giorno per giorno, eppure non mi basta perché davanti a me ci sono strade invisibili da percorrere, trecce di cunicoli adamantini, tunnel di luce abbacinante che mi trasformano in un impulso impazzito di energia cosmica capace in un secondo di essere dovunque, e in un altro secondo ancora di percepire chiunque: il dolore di un cane thailandese che sta morendo in un vicolo a Bangkok, le arcane visioni di una veggente bulgara che si è inutilmente cavata gli occhi per porre fine a quei tormenti, l’immane fatica di una formica sierraleonese che sta trascinando una briciola nella sua tana. Sono una spugna microscopica e grande quanto il mondo che assorbe tutto, che si nutre di maree d’esistenza e che affoga serena nei fluidi della vita intorno a noi in, ogni, momento, che, viviamo, ed ebbro svolazzo sulle autostrade notturne che diventano la mia casa fatta di automobili sfreccianti e inconsistenti che prendono la forma dei lampi nel pieno della notte, e le piccole sporadiche abitazioni sui fianchi delle colline sono grossi funghi con lucciole ammalianti a rischiararle, ed è sempre così delicata questa notte universale, anche se nevica tragedia, anche se sul calendario ci sono solo lunedì, le tenui fiamme del cielo mi ricordano la bellezza indeterminabile dell’esserci, e chiedo solo che mi si voglia bene come io lo voglio a voi, fratelli, genitori e amori sconosciuti, che mai ci incontreremo se non nelle mie radianti incursioni serali dove voglio dirvi che vi sento sempre, e che con affetto incalcolabile e disperato aspetto una sola cosa: LA GRANDE NAVE.
E infine, con l’alba che si avvicina, io ti vengo a cercare: dalla terra al cielo si erge una torre luminosa, tu sei lì: lievito sopra la strada che ho percorso infinite volte e guardo l’ex palazzone dell’INAIL ora infestato da baffuti fantasmi statali, imbocco la ripida mattonata costeggiata da statue di angeli protesi verso il mio etereo passaggio e salgo proprio quei gradini che portano al cancello verde un po’ arrugginito dell’entrata, sorvolo lo stretto giardino con lo scheletro della lavanda senza far rumore perché sono ancora un’ombra appena fosforescente che scivola su quei muri che mi hanno visto apparecchiare la tavola per anni, e sempre piano piano attraverso il soggiorno planando sopra il divano rosso fino a diventare un microbo oltre la porta che chiude la camera dove so che stai dormendo sotto una montagna di coperte nel chiarore morbido di un’abat-jour che custodisce la crisalide di un essere puro e celestiale, ed il tuo cuore proietta sul soffitto un fascio di luce che si impenna oltre il tetto, oltre l’atmosfera terrestre per diventare un faro nella galassia e c’è un profumo di viole nella stanza, un calore che non riesco a dimenticare, è lo scrigno del passato che si apre come una valva e che mi fa rivivere tutto dal principio con lo stesso stupore, la stessa paura, lo stesso incanto degli occhi di un gatto che vede passare un treno nell’oscurità, mentre laggiù, nel porto, una nave sta salpando verso la Tunisia. Però sempre mi sveglio, e sempre vedo quel pupazzo con la nostra foto sulla mensola della libreria.

3 commenti:

  1. sto cercando da 15 minuti le parole per dire qualcosa di sensato e niente, sono giunto alla conclusione che qualsiasi commento infetterebbe l'intimità di cotanta meraviglia.
    Ho i brividi

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  2. non ho mai letto le "robe tue"...oggi l'ho fatto e non so cosa dire... forse basta un semplice ma sincero ringraziamento (quando qualcuno o qualcosa riesce a farmi provare certe emozioni, mi viene spontaneo ringraziare). Le tue parole mi hanno fatto rivivere sensazioni a me familiari, profonde, di quelle che ti scolpiscono il cuore, e inoltre scrivi in maniera magnifica, toccante.

    P.

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  3. grazie Dries, come sempre, per aver avuto la voglia di leggere i miei scleri, e grazie P. per averli letti la prima volta. Poi riconosco che questi commenti diventano tutto un vicendevole ringranziarsi e la cosa fa anche un po' ridere, ma vedete, queste cose, queste "robe", sono importanti per il sottoscritto, le covo dentro e sono un'amalgama di tutto ciò che assorbo vivendo, e quando sono al limite dell'intossicazione l'unico modo che ho per espellerle è scrivere. L'ho sempre detto e sempre lo dirò: scrivere a sé, di sé e per sé ti cambia, io ho questo rifugio virtuale dove poter rimettere tutto ciò che mi fa chinare il capo, è una cosa piccola e nascosta, ma, ripeto, davvero importante, e condividerla con il mondo intero senza sapere niente di chi leggerà è una sensazione che mi ubriaca e che mi rende un filo più vivo di quanto sono, per cui la mia gratitudine è davvero sincera, in fondo si ha sempre e solo bisogno di carezze...

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