venerdì 7 settembre 2018

Fata Morgana

Marito e moglie cinesi si recano negli Stati Uniti a causa della prematura scomparsa della giovane figlia. C’è un funerale da organizzare e un dolore immane con cui imparare a convivere.

Fata Morgana (2016) è la tesi di Amelie Wen, giovane filmmaker proveniente da Pechino ma stabilitasi in terra americana per inseguire i propri sogni di celluloide, a chiusura del suo percorso formativo presso l’American Film Institute Conservatory di Los Angeles, quindi comprenderete subito che la taglia del corto sotto esame non può certo rientrare tra i pesi massimi, è semplicemente un lavoro onesto che non fa un passo che sia uno più lungo della gamba, nelle intenzioni della regista si legge in modo chiaro la voglia di imbastire un piccolo dramma che orbita intorno ad una stella fredda e oscura come un buco nero: la morte della propria figlia. Omettendo le ragioni del decesso (ed è già qualcosa) rimane lo struggimento genitoriale ampliato dallo spaesamento a stelle strisce: soli, in un luogo sconosciuto, bersagliati dai ricordi (la faccenda dell’anello sembra legata al passato), devastati dal lutto ed emotivamente lontani (ma con ricongiungimento conclusivo), in venti minuti scarsi il quadro che si profila è questo, Wen poteva fare di più? Nel senso, poteva spingere maggiormente il pedale della tragicità? Probabilmente sì anche se non sono troppo sicuro che il film ne avrebbe giovato, così impostato infatti mantiene un decoro che, pur non salvandolo da un istantaneo oblio, permette di arrivare in fondo senza aver provato particolari fastidi. Da capire il perché del titolo, che sia un riferimento al famoso effetto ottico che sedusse anche il buon vecchio Herzog (Fata Morgana, 1971)? Oppure si tratta di un’allusione al celebre personaggio delle saghe arturiane? Se qualcuno nella remota ipotesi intoppasse in Fata Morgana e avesse delle illuminanti congetture a tal proposito si faccia avanti, la porta è sempre aperta.

2 commenti: