martedì 13 aprile 2021

The Trouble with Being Born

Di recente ho letto una dichiarazione del buon vecchio Lars von Trier nella quale diceva che l’imperante politically correct della nostra epoca è molto pericoloso perché così nessuno (si) pone delle domande. Se lo afferma Mr. Provocation io mi fido ciecamente, e, per collegarmi a The Trouble with Being Born (2020), credo che anche Sandra Wollner possa condividere il pensiero del collega. Di scuola austriaca (e si vede), questa regista classe ’83 al secondo lungometraggio estremizza, almeno nella prima parte, il concetto di provocazione spingendo la tavoletta dell’acceleratore lì dove pochi altri nel settore hanno avuto il coraggio di arrivare. Ma appunto: il primo blocco. Non posso nascondere che se il film non avesse avuto una biforcazione, il quadretto incestuoso non si sarebbe retto in piedi da solo poiché avrebbe mostrato ferite incurabili, e non mi riferisco tanto al ricorrere di un rapporto morboso per somministrare uno shock allo spettatore, quanto alla semi-esibizione che ne consegue. È sempre il come, e non il cosa, a fare la differenza. Infatti, una volta recepiti i connotati filmici, del chi è chi, viene oculatamente introdotta una scossa all’interno della narrazione, la Wollner, già abbastanza in palla in fatto di autorialità, scombina la linea temporale del segmento paterno, (per fortuna) non è chiaro l’andamento degli eventi, grazie all’instaurazione di un clima misterioso fatto di luci naturali, tragitti in sospensione nella boscaglia e distorsioni della tessitura video, sembra, e sottolineo, sembra, che il flusso del racconto non abbia consequenzialità ma viva di strappi, di flash, di ricordi del papà (sicché acquisterebbero significato le vuote parentesi professionali, l’azione è dentro la casa e stop) dove, in sordina, è incastrato anche il ritorno della vera figlia (è palesemente un’altra attrice, più adulta, non sono però riuscito a dirimere i dubbi nella susseguente scena della piscina: è l’androide quello o no?), aspetto forse confermato dopo quando Emil ascolterà una certa notizia alla tv. Il rompicapo c’è e se ne prende atto, si prega di andare al di là della patina perversa di superficie.

In molte recensioni si accusa l’opera di perdere mordente con la mutazione della bambina in bambino. Per lo scrivente è il contrario, alla Wollner, e alla pellicola in sé, risulta indispensabile l’esistenza della porzione con l’anziana donna perché è qui che si esplicitano, in modo personale finanche respingente, i meccanismi argomentativi che stanno a cuore al film. Sì, la suddetta frazione è nettamente più lineare e ci spiega come poterci orientare in questo mondo distopico che come da tradizione ha delle forti basi realistiche. Il robot antropomorfo è il mezzo che l’essere umano sullo schermo utilizza per raggiungere i propri fini, si tratta della necessità di creare una relazione di dipendenza con un soggetto completamente asservito al suo padrone, un po’ come accade con gli animali domestici (sarà un caso che in una abitazione è presente un gatto e nell’altra un cane?), le ragioni di un bisogno del genere hanno natura diversa, per l’uomo è qualcosa di marcio e malsano, per la vecchia sorella – se ho ben inteso – un antico senso di colpa, ma a prescindere dalle motivazioni, la figura del robot serve ad esorcizzare dei fantasmi che infestano l’animo dei co-protagonisti, e ciò Die Last geboren zu sein lo suggerisce con sufficiente efficacia al pari delle risoluzioni che non sono positive ma anzi ricorsive perché pare che vi sia una ripetizione ineluttabile di circostanze che (ri)portano ad una separazione. Ed Elli/Emil? A ragione è stato evidenziato che l’automa è un manichino di circuiti privo di emozioni (la dimostrazione avviene nel parcheggio del supermercato, in un film diverso lì ci sarebbe stato qualche cortocircuito mnemonico), però mi sono piaciute le modalità con cui la Wollner riesce a camminare sul filo dell’ambiguità facendoci credere che il soffio vitale del replicante abbia un’organicità fatta di memorie e sentimenti, idea che, alla fine, non mi sento di negare del tutto.

Il macro-tema di The Trouble with Being Born, ossia il principio di sostituzione fisica e di conseguenza anche emotiva, di un caro scomparso non è nuovo nella settima arte contemporanea, faccio i titoli di Noriko’s Dinner Table (2005), Alps (2011) e mettiamoci pure Family Romance, LLC (2019) da portare ad esempio, approcci diversi con non dissimile obiettivo, esacerbare la condizione di un’umanità sola, per nulla resiliente e incapace di metabolizzare un lutto, per il sottoscritto la meta finale di Sandra Wollner si situa sulla stessa lunghezza d’onda, ed è una meta raggiunta per merito di un metodo lodevole che ravviva un cinema altrimenti impigrito dalla troppa scrittura. Una visione che merita attenzione da non bollare con supponente faciloneria, scontato specificare che ora si va in cerca di The Impossible Picture (2016).

Danke Dries!

2 commenti:

  1. Se vuoi posso procurarti pure the impossible picture, incuriosisce molto anche me ma purtroppo l'ho trovato soltanto senza sub di nessun tipo quindi non l'ho ancora visto :(

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  2. Devo controllare sul mio fisso, ma penso proprio di essere nella tua stessa situazione. E vabbè, sono sicuro che prima o poi spunteranno

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