giovedì 15 luglio 2021

Dawn

Che cosa ne sappiamo, noi uomini e donne del 2021, di kolchoz, bolscevismo e di tutta quella galassia indeterminabile che dal 1918 in poi ha preso vita nella Grande Madre Russia? Be, a meno di non essere degli appassionati di storia contemporanea non molto, qualche informazione carpita dai libri (c’entra poco ma il magnifico Terminus radioso [66thand2nd, 2016] è ambientato in un kolchoz del futuro), dal passato scolastico, dai film, ma quell’epoca, quel mondo sembrano davvero provenire da un altro pianeta. Tale premessa non è però ribaltata da Ausma (2015), la regista lettone Laila Pakalnina, attiva dagli anni ’90 con un curriculum che magari sarebbe anche da approfondire, gira il suo film proprio all’interno di un’azienda agricola collettiva senza che però vi siano fini chiaramente esplicativi, da depliant, Pakalnina dà per assodata la conoscenza del sistema produttivo/esistenziale delle fattorie e senza troppi complimenti ci catapulta dentro con vigorosa efficacia. Da qui si concretizza un tradimento delle aspettative: al solo leggere della sinossi chi scrive ipotizzava di trovarsi al cospetto di un esemplare cinematografico che dialogando con la tradizione avesse nella solennità, nella liturgia, nel fare tarkovskijano la propria cifra distintiva, niente di più sbagliato: Ausma è un’opera assolutamente rocambolesca i cui i ritmi sono a dir poco vertiginosi e dove la quantità di personaggi e situazioni che li coinvolgono lievita minuto dopo minuto. In parecchie recensioni sparse nel Web si cita Aleksej German come possibile paragone, ci potrebbe anche stare in parte, se non fosse che Hard to Be a God (2013) è una pietra angolare del cinema russo contemporaneo e Ausma ne può essere al massimo una piccola appendice.

Comunque, il caos che regna nella pellicola è l’esatta trasposizione del disordine che si sviluppa nel kolchoz, è un racconto in bilico tra la mitologia e la religione (figli che tradiscono padri che uccidono mogli che uccidono figli) collocato in una realtà dove l’unico mito e l’unico dio è l’ideale del socialismo. Chi fa le veci di Lenin in giro per la fangosa campagna diventa un punto di riferimento più importante dei legami consanguinei (ne è prova l’avvicinamento, leggi: adorazione, di Janis verso il carismatico uomo con il cappello) sicché dalla suddetta considerazione si può sviluppare il concetto che sostiene il lavoro della Pakalnina, ovvero la ricostruzione attraverso un singolo episodio (creduto vero, nei fatti meramente propagandistico) del potere che l’indottrinamento ha nei confronti degli esseri umani, perfino dei più piccoli e plausibilmente innocenti. Questo, sotto strati di peripezie e giravolte (narrative e non), è il nucleo di una questione che pur non arrivando ad universalizzanti verità c’è, vive, e muore, nella follia generale dell’umanità.

Il tasso di drammaticità, persistente e rafforzato dal rigore del bianco e nero, è stemperato da un taglio che razzola amabilmente in bizzarri territori (cfr. il bel commento su Quinlan [link] dove si riflette brevemente sulle potenzialità del grottesco), quasi comici (anzi: senza quasi), in contrapposizione all’apparato tragico inscenato. Coniugazione riuscita? Se non si è troppo intransigenti la risposta è affermativa, nel procedere pantagruelico le diramazioni verso un ulteriore registro non stonano troppo nell’impianto generale, e che la varietà sia un mantra della regista lo si capisce anche dalla metodologia tecnica utilizzata, parliamo di stratagemmi e soluzioni visive che arricchiscono la carica estetica di Ausma incrementandola fino a saturarla. Indubitabilmente sussiste una spinta espressiva ammirevole in cui si susseguono escamotage ottici da seria A, le trovate, tante, tantissime, che meritano più di uno sguardo (sul serio: fatelo!), restituiscono una vibrante energia in linea con quanto esplicitato, per banale gusto soggettivo non impazzisco più dietro ad una siffatta elaborazione della messa in scena, sarei però uno sconsiderato a non riconoscere i meriti legati ad uno sforzo artistico di mirabile sostanza. Un’ultima parola sul finale allegorico: chi saranno quelle galline che becchettano il letame sulla strada?

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