Che
bello! Finalmente un film che non si esaurisce durante la visione e
che ha la forza di trasformarsi oltre i titoli di coda in sete di
conoscenza da parte di uno spettatore obbligato a ricercare indizi,
opinioni, dritte ed interpretazioni per poi giungere alla conclusione
che ogni punto di arrivo, purché soggettivo e pensato, è valido e
che proprio tale capacità, quella di piantare semi nella mente di
chi assiste, è un valore molto più prezioso rispetto a qualunque
scioglimento o annodamento tramico, finalmente, soprattutto, un’opera
che fa esattamente quanto auspico da anni: prendere la realtà senza
intaccarla né codificarla in modo pesante, cogliere una purezza,
un’origine e trasportarle nella diegesi travalicando i confini
stessi del reale: attenzione, è qui, in questa zona decisiva, che la
faccenda si fa tanto seria quanto ghiotta: ecco come si può e si
deve costruire una storia e di come il cinema permetta ciò grazie ad
una specie di processo osmotico che parte da un realismo per
approdare altrove. In altri termini durante la proiezione quanto si
diffonde oltre la membrana dello schermo è la finzionalizzazione di
una concretezza, così, un po’ stupiti e un po’ disorientati,
tocchiamo questi due estremi, i quali, cortocircuitando, partoriscono
esemplari come I tempi felici verranno
presto (2016), modelli di cinema che
hanno radici sia nel contemporaneo internazionale (Weerasethakul
per le riprese nemorali, Gomes per il rimbalzo tra verità e
menzogna) sia nel panorama italiano riguardante i non pochi autori
che lavorando sul documentario sono arrivati in altre zone apocrife,
però I tempi felici... sa
anche distaccarsi da un Marcello di turno, ha una forza diversa
rinvenibile principalmente nell’astrazione che permeando il cuore
del film (si noti il contrasto: dal concreto all’indefinito) arriva
ad universalizzarlo.
Il
friulano Alessandro Comodin giunge al secondo lungometraggio
mantenendo una ferrea coerenza nell’approccio, sia in Jagdfieber
(2008) che ne L’estate di Giacomo
(2011) il
metodo del regista non ha mai abbracciato alcuna didascalia e ha
provato, con semplicità e nei limiti produttivi, di farci sentire
qualcosa piuttosto che raccontarcela. Con la pellicola presentata a
Cannes ’16 lo schema di base è lo stesso ma questa è solo la
partenza: ce ne accorgiamo dopo una mezz’ora sorniona in cui tra
luci naturali e camera in spalla abbiamo seguito due ragazzi vestiti
come cinquanta/sessant’anni fa i quali, giusto il tempo di una
bella panoramica svelatrice, vengono fatti fuori da due
malintenzionati, stacco ed eccoci introdotti in ciò che appare
essere il presente nudo e crudo: ad un tavolino un signore racconta
una leggenda del posto, la quale leggenda prenderà vita nel
prosieguo attorcigliandosi con il passato. Capite? No? Perfetto: è
esattamente qua che Comodin vuole portarci e dove io stesso voglio
arrivare: nel dubbio e nella semioscurità. Attraverso il mix dei
piani temporali, che avviene in totale spontaneità, basta un buco
nella terra (cfr. la penetrazione del formicaio in The Human Surge,
2016), la materia forgiata si scalda arrivando ad una temperatura
elevata con l’incontro tra i due ragazzi. È un’opera aperta a
partire dal dislocante titolo (suggerito casualmente da un amico di Comodin) ed
anche nella sua essenza prismatica, dentro c’è, come ampiamente
ribadito, la tangibilità di ciò che ci circonda e al contempo (ma
di quale tempo
si tratti non so dire) il fantastico del folklore unito all’enorme
capienza del cinema che permette congiunzioni impossibili ed
illogiche ma che attuandosi non lasciano in chi assiste la benché
minima riserva. Lo ripeto: che bello!
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