domenica 12 novembre 2017

I tempi felici verranno presto

Che bello! Finalmente un film che non si esaurisce durante la visione e che ha la forza di trasformarsi oltre i titoli di coda in sete di conoscenza da parte di uno spettatore obbligato a ricercare indizi, opinioni, dritte ed interpretazioni per poi giungere alla conclusione che ogni punto di arrivo, purché soggettivo e pensato, è valido e che proprio tale capacità, quella di piantare semi nella mente di chi assiste, è un valore molto più prezioso rispetto a qualunque scioglimento o annodamento tramico, finalmente, soprattutto, un’opera che fa esattamente quanto auspico da anni: prendere la realtà senza intaccarla né codificarla in modo pesante, cogliere una purezza, un’origine e trasportarle nella diegesi travalicando i confini stessi del reale: attenzione, è qui, in questa zona decisiva, che la faccenda si fa tanto seria quanto ghiotta: ecco come si può e si deve costruire una storia e di come il cinema permetta ciò grazie ad una specie di processo osmotico che parte da un realismo per approdare altrove. In altri termini durante la proiezione quanto si diffonde oltre la membrana dello schermo è la finzionalizzazione di una concretezza, così, un po’ stupiti e un po’ disorientati, tocchiamo questi due estremi, i quali, cortocircuitando, partoriscono esemplari come I tempi felici verranno presto (2016), modelli di cinema che hanno radici sia nel contemporaneo internazionale (Weerasethakul per le riprese nemorali, Gomes per il rimbalzo tra verità e menzogna) sia nel panorama italiano riguardante i non pochi autori che lavorando sul documentario sono arrivati in altre zone apocrife, però I tempi felici... sa anche distaccarsi da un Marcello di turno, ha una forza diversa rinvenibile principalmente nell’astrazione che permeando il cuore del film (si noti il contrasto: dal concreto all’indefinito) arriva ad universalizzarlo.

Il friulano Alessandro Comodin giunge al secondo lungometraggio mantenendo una ferrea coerenza nell’approccio, sia in Jagdfieber (2008) che ne L’estate di Giacomo (2011) il metodo del regista non ha mai abbracciato alcuna didascalia e ha provato, con semplicità e nei limiti produttivi, di farci sentire qualcosa piuttosto che raccontarcela. Con la pellicola presentata a Cannes ’16 lo schema di base è lo stesso ma questa è solo la partenza: ce ne accorgiamo dopo una mezz’ora sorniona in cui tra luci naturali e camera in spalla abbiamo seguito due ragazzi vestiti come cinquanta/sessant’anni fa i quali, giusto il tempo di una bella panoramica svelatrice, vengono fatti fuori da due malintenzionati, stacco ed eccoci introdotti in ciò che appare essere il presente nudo e crudo: ad un tavolino un signore racconta una leggenda del posto, la quale leggenda prenderà vita nel prosieguo attorcigliandosi con il passato. Capite? No? Perfetto: è esattamente qua che Comodin vuole portarci e dove io stesso voglio arrivare: nel dubbio e nella semioscurità. Attraverso il mix dei piani temporali, che avviene in totale spontaneità, basta un buco nella terra (cfr. la penetrazione del formicaio in The Human Surge, 2016), la materia forgiata si scalda arrivando ad una temperatura elevata con l’incontro tra i due ragazzi. È un’opera aperta a partire dal dislocante titolo (suggerito casualmente da un amico di Comodin) ed anche nella sua essenza prismatica, dentro c’è, come ampiamente ribadito, la tangibilità di ciò che ci circonda e al contempo (ma di quale tempo si tratti non so dire) il fantastico del folklore unito all’enorme capienza del cinema che permette congiunzioni impossibili ed illogiche ma che attuandosi non lasciano in chi assiste la benché minima riserva. Lo ripeto: che bello!

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