mercoledì 15 dicembre 2010

La perdita dell'innocenza

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La mia faccia ha assunto più volte le fattezze di un punto interrogativo durante la visone di questo film poiché ne La perdita dell’innocenza (1999) stare dietro alle scelte di Mike Figgis è un’impresa pressoché eroica. Il regista inglese, che ha bazzicato molto spesso i territori hollywoodiani guadagnandosi anche alcune nomination all’Oscar con Via da Las Vegas (1995), si prende dal Morandini del dilettante sopravvalutato, e io non avendo visto nient’altro di suo, per una volta non mi sento troppo distante dai commenti stringati del vecchio Morando. Magari dilettante Figgis non è, di certo però la consistenza della pellicola è talmente rarefatta da domandarsi alla fine a che diavolo di pasticcio abbiamo assistito.

Non risiede soltanto nella sceneggiatura la debolezza di The Loss of Sexual Innocence, il problema è più a monte, e sta in un soggetto totalmente sconclusionato. Ci sono irruzioni del passato in cui vediamo il protagonista giovanissimo o adolescente, in un presente privo di interesse costituito prima dalla rappresentazione di una scialba vita coniugale e poi incomprensibilmente da un viaggio in terre desertiche per girare un film.
Fastidiosissimi gli innumerevoli cambi di registro da parte di Figgis che rendono l’opera disomogenea; si bazzicano i territori del dramma fino a virare nel documentaristico durante la trasferta arabica, passando per gli intermezzi di un “nuovo” Giardino dell’Eden – ulteriore fattore scollante con il loro taglio art house – che oltre a gettare nell’incredulità lo spettatore è teatro di insignificanti scenette tangenti il ridicolo: Adamo nero che tocchigna la diafana Eva per scoprire e scoprirsi non è comico in sé, piuttosto banale nella sua rappresentazione al pari di tutto quello che accade nel Giardino che è esattamente ciò che ci si aspetti che accada.
Negativo anche l’utilizzo della musica, e non per la qualità perché ci sono svariati pezzi di classica, bensì per la quantità. La musica è invadente, irrispettosa della storia tanto da coprire gli stessi attori durante i dialoghi, non lasciando così pause di silenzio (di riflessione) a chi guarda.
Unico merito è quello di aver scelto nel finale una bella location con dei bei personaggi, ossia un gruppetto di abitanti del deserto di blu vestiti, in una conclusione non brutta, ma slegata da tutto il resto.

La recitazione complessiva è ridotta al minimo sindacale. Il povero Julian Sands dopo Boxing Helena (1993) incappa in un altro disastro, il nostro Stefano Dioniso, preso e messo ad minchiam a film inoltrato, si adegua al basso livello che lo circonda.
Quel punto interrogativo lascia il posto ad una virgola, meglio passare oltre.

6 commenti:

  1. Forse il titolo si riferisce a chi guarda :)

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  2. sono d'accordo con almacattleya, ahah!
    caro eraser, ne stai stroncando diversi ultimamente o mi sbaglio? :)

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  3. è un periodo un po' così, arriverano anche grandi film tra poco :)

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  4. di Figgis è molto bello il documentario sul blues inglese, "red white and blues" del 2003: interviste e filmati anni '60 e recenti con John Mayall, Eric Clapton...
    Aveva fatto anche un buon film, "Stormy monday", tanti anni fa. Il resto, come dici tu (di questo film ignoravo l'esistenza)

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  5. Pare interessante, almeno sulla carta, anche Timecode, un film diviso costantemente in split-screen che racconta quattro storie parallele contemporaneamente. Può darsi che ci butto un occhio.

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