mercoledì 23 marzo 2011

Love Song: Monrak Transistor

La mini epopea del giovane Phaen che in un paio di anni passa da speranzoso cantante e padre di famiglia a spiantato barbone costretto ai lavori forzati, viene raccontata da Ratanaruang tramite processi e procedimenti che non hanno molto di che spartire con il cinema d’autore orientale. Mancante di una qualsiasi chiave simbolica dato lo sforzo ermeneutico pari a zero, e perciò poco partecipativo a livello di fruizione, il film (terzo del regista thai) pecca anche nella costruzione poiché privo di un intreccio, sì la traccia sentimentale di fondo c’è ma spesso ne resta solo l’eco, sostituita da uno svolgimento che trasforma il narrato in una normale esposizione di fatti, andando così a toccare un cinema più occidentale, e quindi superficiale vista l’assenza di contenuti in profondità.

Non che l’appena precedente 6ixtynin9 (1999) cosiccome l’opera prima Fun Bar Karaoke (1997) fossero film dai pregnanti significati, tuttavia avevano il pregio di coniugare felicemente vari generi dando vita a pellicole sia sfaccettate nell’attingere a differenti enciclopedie, che unitarie nel riuscire ad amalgamare la diversificazione che le permeava.
La polpa ma anche la buccia di Love Song: Monrak Transistor (2001) è di altra fattezza che lascia più d’un dubbio: musical con reminescenze (le mie, eh) vontrieriane? Melodramma in salsa thai con richiami al folklore del luogo? Polpettone farcito di didascalismo dall’inizio alla fine?
A mio giudizio è soprattutto l’ultimo quesito a centrare la questione. Fin dai primi minuti la linearità di veduta è lampante: un uomo e una donna si amano, quest’uomo e questa donna per forza di cose vengono manzonianamente divisi e nel raccontare le disavventure di lui si va incontro ad una concatenazione di gratuito accanimento cinematografico da parte di Pen-Ek che non giustifica gli infausti eventi capitati al protagonista se non per gettarlo sempre più nella cacca (e lo farà materialmente) creando in linea teorica un ponte empatico che nella pratica risulta troppo lontano da noi.

Soliti personaggi-caricature che a differenza dei predecessori non riescono a dare quella marcia in più alla storia, e che anzi posti sul palcoscenico rimangono relegati sullo sfondo a causa del loro poco spessore, con la parziale eccezione del manager talent scout dalle inclinazioni alla Lele Mora che rappresenta una divertente parentesi.
Purtroppo nella totalità il film è appiattito da uno spudorato meccanismo che abbraccia un patetismo trasmesso ad alta voce e con uno stile per buoni tratti dozzinale tanto da avvalorare per la palese differenza qualitativa il film successivo Last Life in the Universe (2003).
Distribuito non so perché in Italia dalla Lucky Red, sarà tutt’ora impigliato nelle ragnatele sugli scaffali. Ratanaruang ha fatto di meglio.

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