Primo cortometraggio di
Matt Porterfield e primo film girato fuori dagli Stati Uniti, di Take
What You Can Carry (2015) ci parla il suo sito ufficiale (link)
aiutando, chi ne ha voglia e tempo, ad afferrare il bandolo di una
matassa piccola e di cui ritengo possiate anche rimanere all’oscuro,
comunque, tenuto conto del “character study as well as a meditation
on communication, creativity, and physical space”, la faccenda
della comunicazione appare una questione non trascurabile, Lilly
(Hannah Gross, già vista nel precedente e dimenticabile I Used to Be Darker, 2013) è una giovane americana trasferitasi a Berlino
che vive un po’ di qui e un po’ di là: in realtà non si sa,
Porterfield procedendo da sempre per sottrazione apre il film con una
veloce scena dalla luce crepuscolare, capiremo poco dopo che è
l’alba e parimenti capiremo che il rapporto con il compagno
oquellocheè è infiacchito da un’incomunicabilità evidente anche
nelle parole (“mi piace quando sei qui”) che sono biascicate e
quasi coperte dalle corde della chitarra. Nella scena centrale che
sembra quella in grado di sollevare un pelo il corto dalla melma,
abbiamo un gruppo di persone (tra cui Lilly) che in una palestra si
lasciano andare ad una specie di terapia danzante dove l’inizio di
un ballo è sempre anticipato da una frase detta al microfono,
asserzioni sconclusionate (“ci masturbiamo troppo; non capiamo il
conflitto in Iraq; non abbiamo mai visto un cadavere”), fuori
contesto ma dentro la concettualità del film: dire per
esprimersi, per rimettere se stessi.
Porterfield non è
affatto diretto ed anche l’interpretazione soprastante non si
assume alcuna responsabilità esegetica totalizzante, e, almeno per
quanto il sottoscritto ha potuto intendere, non è che l’opera in sé sia in grado di accendere chissà quali attenzioni
nonostante annoveri un’idea bastantemente interessante. In
alcune interviste al regista che potete rintracciare in Rete viene
sottolineato non poco il fatto che Take What You Can Carry sia
ambientato a Berlino e del correlato tentativo di ritrarne lo spirito
internazionale, sarà anche così ma io onestamente ho faticato non
poco a cogliere tale sfumatura anche perché nella sua tripartizione
si rimane sempre all’interno di ambienti chiusi (due case e una
palestra). Quindi tre parti: descritte e delucidate (all’incirca…)
le prime due viriamo sull’ultima, che dovrebbe essere decisiva per
una chiusura del tutto, e che non è tale, o magari sì, il punto è
che Porterfield persegue il suo metodo soft e piazzando Lilly in
un’altra abitazione (prima l’avevamo vista preparare una valigia)
ci nega la conoscenza di cosa la ragazza risponderà alla lettera
ricevuta. Nel 90% dei casi gioisco per una trasmissione di
informazioni niente affatto diretta che lascia allo spettatore
l’onere e l’onore di costruirsi da solo la visione, ‘sta volta
diciamo che siamo nel restante 10% a cui si unisce un torpore che è
difficile possa scuoterci, se si voleva scendere nell’intimità ci
si è fermati all’epidermide. Di Porterfield Putty Hill
(2010) risulta essere il suo cinema migliore.
Nessun commento:
Posta un commento