martedì 8 gennaio 2019

Take What You Can Carry

Primo cortometraggio di Matt Porterfield e primo film girato fuori dagli Stati Uniti, di Take What You Can Carry (2015) ci parla il suo sito ufficiale (link) aiutando, chi ne ha voglia e tempo, ad afferrare il bandolo di una matassa piccola e di cui ritengo possiate anche rimanere all’oscuro, comunque, tenuto conto del “character study as well as a meditation on communication, creativity, and physical space”, la faccenda della comunicazione appare una questione non trascurabile, Lilly (Hannah Gross, già vista nel precedente e dimenticabile I Used to Be Darker, 2013) è una giovane americana trasferitasi a Berlino che vive un po’ di qui e un po’ di là: in realtà non si sa, Porterfield procedendo da sempre per sottrazione apre il film con una veloce scena dalla luce crepuscolare, capiremo poco dopo che è l’alba e parimenti capiremo che il rapporto con il compagno oquellocheè è infiacchito da un’incomunicabilità evidente anche nelle parole (“mi piace quando sei qui”) che sono biascicate e quasi coperte dalle corde della chitarra. Nella scena centrale che sembra quella in grado di sollevare un pelo il corto dalla melma, abbiamo un gruppo di persone (tra cui Lilly) che in una palestra si lasciano andare ad una specie di terapia danzante dove l’inizio di un ballo è sempre anticipato da una frase detta al microfono, asserzioni sconclusionate (“ci masturbiamo troppo; non capiamo il conflitto in Iraq; non abbiamo mai visto un cadavere”), fuori contesto ma dentro la concettualità del film: dire per esprimersi, per rimettere se stessi.

Porterfield non è affatto diretto ed anche l’interpretazione soprastante non si assume alcuna responsabilità esegetica totalizzante, e, almeno per quanto il sottoscritto ha potuto intendere, non è che l’opera in sé sia in grado di accendere chissà quali attenzioni nonostante annoveri un’idea bastantemente interessante. In alcune interviste al regista che potete rintracciare in Rete viene sottolineato non poco il fatto che Take What You Can Carry sia ambientato a Berlino e del correlato tentativo di ritrarne lo spirito internazionale, sarà anche così ma io onestamente ho faticato non poco a cogliere tale sfumatura anche perché nella sua tripartizione si rimane sempre all’interno di ambienti chiusi (due case e una palestra). Quindi tre parti: descritte e delucidate (all’incirca…) le prime due viriamo sull’ultima, che dovrebbe essere decisiva per una chiusura del tutto, e che non è tale, o magari sì, il punto è che Porterfield persegue il suo metodo soft e piazzando Lilly in un’altra abitazione (prima l’avevamo vista preparare una valigia) ci nega la conoscenza di cosa la ragazza risponderà alla lettera ricevuta. Nel 90% dei casi gioisco per una trasmissione di informazioni niente affatto diretta che lascia allo spettatore l’onere e l’onore di costruirsi da solo la visione, ‘sta volta diciamo che siamo nel restante 10% a cui si unisce un torpore che è difficile possa scuoterci, se si voleva scendere nell’intimità ci si è fermati all’epidermide. Di Porterfield Putty Hill (2010) risulta essere il suo cinema migliore.

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