domenica 8 settembre 2013

Las Acacias

Las Acacias (2011) potrebbe essere definito cone un road-movie famigliare” perché con sobrietà e senso della misura propone elementi che abbracciano ambo le categorie. Che quella di Pablo Giorgelli sia un’opera in cui la strada intesa come spazio di transizione ha un ruolo di primo piano è una certezza evidente, un’eguale evidenza, solo un po’ più velata, riguarda anche il tema della famiglia che Giorgelli decide di affrontare con modalità quanto meno impavide: buona parte del film è infatti ambientata all’interno della cabina di un camion e vede come protagonisti l’autista del convoglio e la passeggera con neonata a seguito immortalati da un’alternanza di camere fissate fuori dai rispettivi finestrini, a ciò si aggiungono i dialoghi scarnificati di qualunque eccesso e plasmati nell’essenzialità. Al cospetto di elementi così disadorni il messaggio del regista nato a Buenos Aires ci mette un nulla ad arrivare; l’immediatezza dell’impostazione generale, soprattutto nella delineazione dei due personaggi (lui burbero e solitario; lei amorevole e materna), non si può definire un difetto ma senz’altro ne limita la profondità concettuale, Giorgelli stringe il cerchio attorno all’uomo e alla donna, ne evidenzia i caratteri antitetici e allo stesso tempo ne suggerisce un possibile avvicinamento, nient’altro viene trattato menchemeno illustrato: tutto, è qua.

Tali suggerimenti, asciugati, come detto, di ogni possibile accessorio dialogico superfluo, oscillano “fra le righe” di confessioni appena appena accennate (non c’è nessun padre per Anahí dice Jacinta, e ugualmente Rubén patisce per una condizione paterna difficile) o più semplicemente nel lasciare alla scena cablata sul gesto, sull’espressione, sul sorriso, il compito di significazione. Senza ombra di dubbio la riuscita di suddette sequenze, e nel globale della sensazione di benevolenza che Las Acacias suscita, non si sarebbero mai concretizzate senza la presenza della piccola Anahí che è il baricentro emotivo di tutto il film. Questa bambolina dai grandi occhioni non solo risveglia in Rubén quella voglia di essere padre assopita nel cassettino del cruscotto, ma in particolare ne scalfisce l’armatura rivelando squarci che reclamano un calore ben più affettuoso di quello garantito dal mate, bevanda sudamericana simile al nostro tè. L’instaurazione di questo rapporto genitore-figlia e il conseguente sviluppo vive di momenti irrorati da una tenerezza che per merito della pargoletta si avvertono spontanei, senza artificio, e riescono ad ingemmare un film che concentrandosi su un unico argomento e scegliendo di non dare respiro alle riprese, è privo di aperture contenutistiche: la strada percorsa, oltre a quella che collega il Paraguay con l’Argentina, è la strada dritta e sicura del sentimento latente, non ci sono scorciatoie o ulteriori diramazioni.

Il fatto che la famiglia sia il cuore della pellicola ha radici autobiografiche poiché Giorgelli, come afferma in questa intervista (link), ha pensato al film dopo un bruttissimo periodo: padre ammalato, crisi economica argentina, perdita del proprio lavoro e divorzio dalla moglie, tutti elementi bene o male riversati in questa vicenda scritta insieme a Salvador Roselli, autore della sceneggiatura di Liverpool (2008).
Presentato al Festival di Cannes 2011 e vincitore della Camera d’Or, premio assegnato al miglior debutto cinematografico.

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