Las Acacias (2011)
potrebbe essere definito cone un “road-movie famigliare”
perché con sobrietà e senso della misura propone
elementi che abbracciano ambo le categorie. Che quella di Pablo
Giorgelli sia un’opera in cui la strada intesa come spazio di
transizione ha un ruolo di primo piano è una certezza
evidente, un’eguale evidenza, solo un po’ più velata,
riguarda anche il tema della famiglia che Giorgelli decide di
affrontare con modalità quanto meno impavide: buona parte del
film è infatti ambientata all’interno della cabina di un
camion e vede come protagonisti l’autista del convoglio e la
passeggera con neonata a seguito immortalati da un’alternanza di
camere fissate fuori dai rispettivi finestrini, a ciò si
aggiungono i dialoghi scarnificati di qualunque eccesso e plasmati
nell’essenzialità. Al cospetto di elementi così
disadorni il messaggio del regista nato a Buenos Aires ci mette un
nulla ad arrivare; l’immediatezza dell’impostazione generale,
soprattutto nella delineazione dei due personaggi (lui burbero e
solitario; lei amorevole e materna), non si può definire un
difetto ma senz’altro ne limita la profondità concettuale,
Giorgelli stringe il cerchio attorno all’uomo e alla donna, ne
evidenzia i caratteri antitetici e allo stesso tempo ne suggerisce un
possibile avvicinamento, nient’altro viene trattato menchemeno
illustrato: tutto, è qua.
Tali suggerimenti,
asciugati, come detto, di ogni possibile accessorio dialogico
superfluo, oscillano “fra le righe” di confessioni appena appena
accennate (non c’è nessun padre per Anahí dice
Jacinta, e ugualmente Rubén patisce per una condizione paterna
difficile) o più semplicemente nel lasciare alla scena cablata
sul gesto, sull’espressione, sul sorriso, il compito di
significazione. Senza ombra di dubbio la riuscita di suddette
sequenze, e nel globale della sensazione di benevolenza che Las
Acacias suscita, non si sarebbero mai concretizzate senza la presenza
della piccola Anahí che è il baricentro emotivo di
tutto il film. Questa bambolina dai grandi occhioni non solo
risveglia in Rubén quella voglia di essere padre assopita nel
cassettino del cruscotto, ma in particolare ne scalfisce l’armatura
rivelando squarci che reclamano un calore ben più affettuoso
di quello garantito dal mate, bevanda sudamericana simile al
nostro tè. L’instaurazione di questo rapporto
genitore-figlia e il conseguente sviluppo vive di momenti irrorati
da una tenerezza che per merito della pargoletta si avvertono
spontanei, senza artificio, e riescono ad ingemmare un film che
concentrandosi su un unico argomento e scegliendo di non dare respiro
alle riprese, è privo di aperture contenutistiche: la strada
percorsa, oltre a quella che collega il Paraguay con l’Argentina, è
la strada dritta e sicura del sentimento latente, non ci sono
scorciatoie o ulteriori diramazioni.
Il fatto che la famiglia
sia il cuore della pellicola ha radici autobiografiche poiché
Giorgelli, come afferma in questa intervista (link), ha pensato al
film dopo un bruttissimo periodo: padre ammalato, crisi economica
argentina, perdita del proprio lavoro e divorzio dalla moglie, tutti
elementi bene o male riversati in questa vicenda scritta insieme a
Salvador Roselli, autore della sceneggiatura di Liverpool (2008).
Presentato al Festival di
Cannes 2011 e vincitore della Camera d’Or, premio assegnato al
miglior debutto cinematografico.
come privarsene? :)
RispondiEliminaFilm asciutto, essenziale. Mi è piaciuto moltissimo. Bella recensione!
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