lunedì 6 settembre 2010

Daisy Diamond

Madre e figlia di quattro mesi. Sole e senza soldi. La piccola piange in continuazione, anche durante le audizioni della giovane mamma che non avranno mai esito positivo. E lei continua a piangere, poi smette. Per sempre.

Bum! Filmone.
Non so dove fosse stato fino ad oggi questo giovane regista danese ma ora che l’ho incontrato me lo tengo ben bene stretto. Potrò sbagliarmi, eppure ho visto nella regia di Simon Staho una padronanza tale del mezzo che mi ha trasmesso una sensazione di grande competenza. Come dire: sentivo che il cineasta sapeva quel che faceva. E questa è una cosa che riguarda i grandi, e lui potrebbe esserlo.
Grandi come i punti di riferimento del cinema scandinavo che è impossibile non menzionare. Difatti pare una tendenza più o meno consolidata di questi paesi dare grande risalto ad eroine femminili tra il sacro ed il profano. Non mi riferisco solo alle Grace di Lars von Trier – a proposito, questo film è prodotto dalla Zentropa – ma anche al primigenio La passione di Giovanna d’Arco (1928). E Staho sembra omaggiare Dreyer in lungo e in largo perché costella la pellicola di intensi primi piani sul viso di Noomi Rapace, attrice capace di disintegrare lo schermo solo che con gli occhi.

L’incipit che apre il film è da manuale, e sebbene non originalissimo, c’è chi cita Lynch, solleva il sipario su una storia spietata che ha la meravigliosa capacità di far riflettere mentre riflette su se stessa.
Ci sono due vie parallele percorribili: la prima è quella che vede Anna alle prese con i problemi che una ragazza madre prova a superare. Più o meno tutto ruota come sempre intorno alla mancanza di soldi per riuscire tirare avanti, si noti che alla fine Anna viene umiliata da Jens Albinus (Idioti, 1998) che le riempie la bocca di denaro, e così assistiamo a continui provini in cui sebbene Anna sia bravissima viene respinta per motivi futili tipo la dizione imperfetta, il fatto che non abbia una formazione specifica, o per il seno troppo piccolo. Surplus negativo è la piccola Daisy che con il suo pianto incessante, la piccola ha fame ma la madre non ha latte nel seno e da qui sorge un ulteriore senso di inettitudine, porta all’esaurimento la mamma ed anche lo spettatore perché vi assicuro che gli strilli della piccola urtano davvero i nervi; da ciò scaturisce una forte empatia con la protagonista che lascerà sconcertati (oppure no?) per il suo gesto estremo. Le musiche che accompagnano l’affogamento, le prime che si sentono, suonano a beffarda liberazione di un peso. Cosa che non accadrà visto che il senso di colpa perseguiterà sottoforma di una Daisy adulta (“Io ero speciale. Hai mai pensato a questo?”) la giovane mamma la cui vita collassa inevitabilmente in un processo di autodistruzione senza ritorno. Un martirio fatto di sottomissione, freddezza, lontananza, alienazione.

La seconda via parallela che completa un piatto già molto ricco è quella che riguarda i segmenti in cui Anna recita durante le audizioni. Non si tratta di semplici riempitivi poiché il suo dramma si intreccia con il set cinematografico che diventa il limbo nel quale realtà e finzione si (con)fondono senza possibilità di distinzione. È per questo che è stato tirato in ballo Lynch, ed è sempre per questo che l’opera è in grado di far pensare compiendo una sapiente autoriflessione. Metacinema dicono gli esperti, capacità di ragionare su di sé spiegando e spiegandosi.
Accade questo: i fatti che stravolgono la vita di Anna trovano sempre un corrispettivo incastro nelle sceneggiature delle audizioni per cui molto di ciò che è accaduto ci viene suggerito nelle ambigue pieghe della finzione depositando domande su domande.
Come appare, dunque, il cinema agli occhi dello spettatore? Un àncora di salvataggio nella disastrata esistenza di Anna? Una via di fuga? No. Niente di tutto questo. Il mondo della finzione segue di pari passo quello della realtà, per cui anche qui ci sono individui meschini come la regista lesbica o il regista che vuole farsi Anna promettendole raccomandazioni. È una visione negativa, sicuramente spoglia di sentimenti che sono il mastice dell’arte. Anzi, il sentimento c’è, ed è quello della protagonista, ma Staho è più spietato del boss Trier e in un orizzonte di ghiaccio anche la tremula fiammella di Anna si spegne presto, probabilmente da subito.

Pietra tombale sul finale dove le due vie parallele arrivano a sfiorarsi. Il cinema ripercorre la vita (la morte?) di Anna, e la morte (la vita?) di Anna diventa cinema.

14 commenti:

  1. Potrò sbagliarmi ma a te piacerà. E tanto.

    RispondiElimina
  2. eheh mi stai facendo spazientire. Questi sono proprio il genere di prodotti che accolgono il mio sano masochismo artistico.

    RispondiElimina
  3. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
  4. avevo scritto un commento a caldo positivissimo, ma è da due ore che ci penso e credo che il film non meriti giudizi affrettati.

    Quindi metto da parte le solite analisi dove si possono rintracciare le solite influenze e citazioni (bergman, godard, von trier, dreyer e chi più ne metta) e dico solo che è:
    DEVASTANTE. La forza del film è in sè. Parossistico l'uso della parola che è paradossale all'estetica minimalista. Eppure c'è un'armonia, una fluidità che sfugge a qualsiasi accusa di esercizio di stile, è un film fatto con il cuore e si vede. Finale catartico, lugubre, poetico, tristissimo, archetipo della sofferenza umana che ha bisogno di riempirsi.
    Le note struggenti di Rebel eccheggiano tra qua e l'aldià...

    RispondiElimina
  5. Sì in effetti c'è e si sente uno Stile con la esse maiuscola, ma non si sofferma su di sé, non si autocompiace, non dice "ehi guardatemi come dico bene queste cose". Però le cose le dice bene, e davvero tanto.
    Credo che Staho meriti un doveroso quanto mai urgente approfondimento.

    RispondiElimina
  6. Film clamoroso. L'eleganza dell'operazione è riassunta nel finale: lei, assassina e prostituta, finge la morte nel suo primo film da protagonista, coronando la sua storia (vera) con il suicidio che tutti ci aspettavamo, un suicidio finto, come diversamente non poteva essere in nessuno dei due film (quello interno e quello che stavamo vedendo), proprio in quanto "recitato". Il coronamento catartico di cui il film aveva bisogno in realtà è solo una spietata e artificiosissima rivalsa, in cui tutta la verità del film viene riletta retrospettivamente come menzogna, in quanto entrerà a far parte del film nel film, e il finale chiuderà tutte e due le storie interne, e la storia unica di cui siamo spettatori, e di cui lei è (è stata e sarà)"leading actress".

    L'arte dello sconfessamento ai livelli di Lars, o di Haneke.

    Capolavoro.

    "Nel mio cinema io cerco di raggiungere una sorta di onestà anche mentendo." lvt

    Giovanni

    G

    RispondiElimina
  7. Il mio avatar ti strizza forte l'occhio, hai visto che roba? Ci starai pensando ancora adesso, lo so, è l'effetto che fa, io ci penso tutt'ora a distanza di anni, fai te.
    Haneke? Se lo relaziono a Daisy Diamond mi viene subito in mente la scena del telecomando in Funny Games, come un lampo.
    Che film! Da adorare smisuratamente.

    RispondiElimina
  8. Quella, ma anche il finale scorrettissimo: la morte "cinematografica" che ovviamente non può essere vera, il suicidio dell'attrice. Il totale scorrettissimo infame sconfessamento di quello che intendiamo come "patto narrativo". Uno sputo addosso allo spettatore che solo Haneke, Lars e il finale della Montagna Sacra di Jodo. Genio lui, capolavoro il film.

    Stasera l'età inquieta di dumont

    G

    RispondiElimina
  9. Io invece (molto probabilmente) "è stato il figlio". Ci divertiremo entrambi penso.

    RispondiElimina
  10. Poi mi saprai dire. Ha diviso molto. Ne parliamo appena (e se) ne scrivi, o prendo il vizio di invadere recensioni off topic.

    G

    RispondiElimina
  11. uscita da questa angosciantissima immersione in uno dei più neri incubi dell'intimo femminile : la maternità indesiderata.
    non credo di aver visto molte altre pellicole così traumatizzanti eppure catartiche allo stesso tempo,catarsi che prende vita in quella vasca nelle varie scene che sono poi la stessa scena acquatica: scena madre.
    neanche si potrebbe a caldo aumentare la distanza prospettica dello sguardo e fare recensioni di sorta: sarebbe volgare.
    la potenza del volto tagliente della rapace, che può con quest'ennesima prova di bravura e presenza scenica vantare parte di rilievo nell'iconografia lesbo/queer, basta a rendere più sopportabile tutto il dolore, il suo, il nostro, che confluisce in un' unica storia magistralmente narrata.
    e quante parallele e intersezioni oltre al tronco principale della maternità ci sarebbero da sviscerare.
    decisamente d'accordo con i tanti che l'hanno associato ai vari haneke e von trier, anche se con molto più vetro tagliente questo (per me nuovo) staho.
    domanda etica: ma la piccola stava davvero male per urlare for real, che le avranno mai fatto? angoscia.
    e chi se la scorderà più.

    RispondiElimina
  12. continua così tarantola, col tuo commento mi hai fatto venire voglia di rivederlo.

    (e sì, basta un primo piano della Rapace a spaccare letteralmente lo schermo, lei è bravissima ma anche chi la riprende sa il fatto suo; e quando un semplice PP è capace di dire molto di più che qualunque didascalia allora significa che chi dirige ha capito molto, e lo riesce a trasmettere senza parole ma con la cellula base del cinema: l'Immagine)

    RispondiElimina
  13. ne ho parlato anche da me oggi, un film da pelle d'oca proprio...impossibile dimenticarlo, impossibile non restarne abbagliati.

    RispondiElimina