venerdì 5 giugno 2009

L'isola

Probabilmente nessuno di voi conoscerà Pavel Lungin, all’anagrafe Pavel Semyonovich Lungin, cineasta russo trapiantato in terra di Francia che ha all’attivo una decina di film tra cinema e televisione. Non temete, anche per me fino a poco tempo fa era un perfetto sconosciuto. Questo mi fa pensare a quante cose non riuscirò mai a vedere, sentire o leggere. Ma tengo duro, e in questa discesa sotto la superficie del conosciuto che ormai ho intrapreso da alcuni anni, si è palesato dinanzi a me L’isola, un film del 2006 distribuito in Italia dalla Metacinema che vinse nello stesso anno l’Aquila d’Oro, ovvero il maggior riconoscimento cinematografico russo. Mica facile scrivere di quest’opera. Dopo un incipit filtrato a mo’ di fumetto in cui un marinaio russo è costretto ad uccidere un suo compagno da un gruppo di nazisti per poi subire l’esplosione di un ordigno tedesco, veniamo sbalzati in avanti di trent’anni e il giovane marinaio è diventato padre Anatoly, uno strambo monaco guaritore che vive in un monastero spartano situato su una glaciale isoletta del mar russo. L’esistenza di Anatoly è segnata da quell’omicidio commesso contro la sua volontà, assassinio del quale sente una colpa profonda e che vive come un peccato senza possibile espiazione, se non quello della morte.
Lungin potenzia la visione prediligendo i campi ai piani. Scelta azzeccata a mio avviso perché il film ha un sapore filosofico-spirituale dove l’uomo inteso come semplice organismo ha poca importanza. Così non si contano i Campi Lunghissimi dove lo spazio è abbracciato nella sua estensione, ed i soggetti che remano una minuscola barca o che camminano sulla neve, sono ridotti a semplici silhouette, i loro movimenti non hanno alcun peso sulla scena, nessuna conseguenza. Questa dimensione eterea è accentuata dagli abiti che indossano i monaci: tutti uguali, ma non solo, anche le capigliature si somigliano tutte, a testimonianza di una considerazione marginale dell’uomo in senso fisico che contribuisce ad aumentare la discrepanza fra i monaci e Anatoly, l’unico a non avere la barba e i capelli lunghi, ed a non indossare abiti scuri. Il protagonista, interpretato da un’ex rock star russa, è la mina vagante del film, l’altra faccia di una religione che troppe volte si veste di orpelli inutili, ed è significativa a tal proposito la scena in cui Anatoly brucia gli stivali del suo “capo” dicendo più o meno: “Si annidano più peccati in un paio di stivali regalati da un arcivescovo che in qualunque altro luogo.” Mi sembra vero.
L’antro di Anatoly potrebbe benissimo essere un qualunque covo di un qualunque killer in un qualunque horror: egregio è il dosaggio delle luci che celano focherelli e cumuli di carbone fra ombre e aloni luminosi. Praticamente un mondo agli antipodi di quello candido ed immacolato che circonda la baracca (nonché caldaia) di Anatoly.
Tra l’altro vorrei sottolineare di come vengano usate benissimo le fonti luminose durante il dialogo che prelude la sua redenzione. Una piccola luce illumina la fronte del monaco guaritore che in quel momento si libera del suo peccato.
Un appunto, però, lo faccio alla sceneggiatura.
Partendo con un incipit del genere è inevitabile che prima della fine vi sia un riallacciamento ad esso. L’entrata in scena della figlia pazza e dell’ammiraglio è troppo tardiva e repentina, sarebbe stato più giusto, chessò, inserire qualche frammento del loro viaggio al monastero in modo da dare più spessore ai loro personaggi che invece sembrano burattini messi lì solo per redimere Anatoly.

Not bad, particolare.

3 commenti:

  1. QUESTO E' FILM MERAVIGLIOSO,e' stato bello vederlo,pochi film ti aiutano nella fede ma questo e' spettacolare.............VEDETELO

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  2. Meraviglioso, va al cuore della vita e della fede

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  3. uno dei più bei film che abbia mai visto... invita a revisionare la propria fede , a guardarsi nel profondo e a non aver paura di rivestirsi di speranza in Cristo...

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