domenica 28 giugno 2009

Alice

Quella specie di tagline che spesso capeggia nelle pagine di Wikipedia è, nel caso di Jan Švankmajer, assolutamente illuminante perché dice pressappoco così: “Il mondo si divide in due categorie: quelli che non conoscono Švankmajer, e quelli che hanno visto i suoi lavori e sanno di avere a che fare con un genio.”
Temo che il primo gruppo superi di brutto il secondo perché qui in Italia, a parte una raccolta di suoi cortometraggi intitolata Il mondo di Jan Švankmajer (Raro Video, 2008), di questo artista praghese non si hanno mai avute tracce, né al cinema, né in vhs, né in dvd.

Non so se quest’uomo sia veramente un genio, e di certo non potrei dirlo io, ma alcuni suoi cortometraggi, fruibili in qualunque sito di video sharing, sono delle vere e proprie bombe a orologeria. Un concentrato di trovate assurde, stranianti, gustosamente weird.
E questo Alice (1988), il suo primo lungometraggio, che si ispira al romanzo di Carroll, sembra un po’ una summa di alcuni corti precedenti dove domina la tecnica del passo uno (stop-motion) che qui è talmente fluida da rasentare la perfezione. Come suggerisce l’incipit questo non è, forse, un film solo per bambini, e se saremo così ottusi da tenere gli occhi aperti rischieremo di non vedere niente.
Non ho mai letto i celebri romanzi di Carroll, penso però che l’atmosfera dominante sia per certi versi onirica, surreale; anche qui lo è, ma pende più verso l’incubo. Alice è un film cupo, silenzioso, perde qualunque velleità fiabesca fin dall’entrata in scena del coniglio bianco che non zampetta felice nell’erba ma fuoriesce da una teca nella quale era impagliato, e l’orologio che gli ricorda sempre il suo perenne ritardo non è situato nel taschino della giubba ma nel suo ventre, dal quale fuoriesce continuamente della segatura.
Anche gli altri personaggi che grazie al cartone della Disney ci sono stati tramandati come buffi e paciocconi, nell’interpretazioni di Švankmajer assumono tratti mostruosi che il passo uno rende, se possibile, ancora più inquietanti. E così il simpatico Bruco Califfo diviene un calzino sgusciante con tanto di dentiera, ma anche la stessa Alice, quando rimpicciolisce, si trasforma in una bambolina dallo sguardo vitreo. Brrr…

Ad una vena immaginativa così straripante corrisponde però una lunghezza totale forse eccessiva visto che la bambina si muove in progressione all’interno di stanze in cui il surreale spesso si protrae più del necessario (la scenetta col Cappellaio Matto e la Lepre Marzolina è piuttosto stucchevole); anche perché i dialoghi sono praticamente assenti, c’è solo il Dettaglio di una bocca che riporta fedelmente le battute in scena ( “said the Hearts Queen”) proprio come se stessimo leggendo un libro (strano espediente questo, non riuscitissimo ma originale). Dunque non resta che affidarsi alle immagini, ma a volte superano l’immaginazione e non è semplice raccapezzarcisi.
Resta comunque una valida visione alternativa che mi spingerà sicuramente a vedere altro di questo regista. Prima di avventurarsi in Alice consiglio di dare un’occhiata ai cortometraggi precedenti di Švankmajer: sono un buon antipasto, anzi in alcuni casi sono più sfiziosi del film stesso.

2 commenti:

  1. Ti fai una domanda assolutamente lecita, a cui io ho una facile risposta.
    Si, secondo me Švankmajer è un genio. Ma anche se non lo fosse lo amo davvero come pochi, perchè è l'emblema dell'arte oltre che della vita.
    Apparentemente sembrerebbe di no. Le sue pellicole, lungometraggi o cortometraggi che siano, sembrano emanare ansia ed inquietudine da ogni poro, quando invece è quanto di più vivo sia stato pensato nel cinema contemporaneo.
    Il suo strano modo di concepire la realtà non è altro che un regalo all'occhio umano dello spettatore.
    Ogni cosa è vita, ogni cosa ha una sua anima, e di conseguenza regala coscienza alle cose materiali della vita di tutti i giorni, cose per noi indispensabili ma che esistono solo perchè siamo noi a dare un perchè a quelle cose, e quindi alla loro esistenza.
    Ovvio che per Alice il discorso è un po' diverso, essendo tratto da Carrol, che quando scrisse il libro a tutto aveva pensato meno che all'interpretazione disneyana (le incisioni del libro sono di una prova schiacciante). Da qui poi ovviamente si sviluppa un'interpretazione personale. Tutto si basa su uno stereotipo sbagliato che cerca di far venire a galla. Lui stesso asserisce che la visione dell’infanzia come una sorta di paradiso perduto è fortemente deformata. A partire dalla nascita, che non si può di certo definire gradevole.
    "L’infanzia era sempre piena di proibizioni, d’ingiustizie, di crudeltà. I bambini sono d’altronde spinti a diventare adulti e un errore analogo è l’idealizzazione dell’infanzia che emerge con l’avanzare dell’età. Nessuno è più crudele di un bambino. Non intendo denunciare la mia infanzia. Sto cercando di preservare una relazione sempre “attiva” con essa. Forse sto ancora combattendo con la mia infanzia."
    La sua riflessione comunque lo porta all'utilizzo di tutta una serie di oggetti che hanno la sola funzione di evocare ricordi e sensazioni legati all'infanzia. Attraverso i pupazzi, le marionette ed i vecchi giocattoli il regista attua un rinvenimento della “forza immaginativa” infantile, individuata come la sola in grado di ristabilire il perduto contatto magico-sensitivo con la realtà.
    Comunque sia, alenky è solo una delle tre tappe del suo percorso verso l'età fanciullesca anche se non me la sento di definirlo propriamente parte di un trittico...
    E soprattutto è meglio se mi fermo qui, prima di diventare fastidiosa.

    ;)

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  2. Accidenti. Ma io ti do le password e il blog lo porti avanti tu che io sono un po' stanchino ormai! :)
    E comunque sì, Švankmajer è un genio, solo che Alice era il suo primo film e ancora non avevo ben inquadrato la levatura dell'autore.
    La tua analisi sulla "donazione di vita" alle cose immateriali mi trova assolutamente d'accordo, tuttavia io le considero (anche) inquietanti e angosciose proprio perché raccontano, no, trasmettono vita che è (anche) inquietudine e angoscia.

    La questione infanzia è un tema che in effetti emerge spesso nei suoi film. Forse l'unico in cui latita è Lunacy, che, non so se sia una coincidenza è quello che mi è piaciuto meno. Ma essendo un tema così ampio, e avendo visto i film di Švank ormai più di un anno fa non mi sento di aggiungere altro alle tue dotte dissertazioni che tutto possono risultare tranne che fastidiose.

    Tra l'altro a Venezia c'era il suo ultimo - e pare che sarà proprio l'ultimo della sua carriera - lavoro. Un mio amico blogger in genere molto severo l'ha visto e gli è piaciuto molto. :)))

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