lunedì 26 novembre 2012

R

Un fiume gonfio di violenza, un’apnea umana d’imperterrita prevaricazione, R (2010), diretto da due giovani danesi, Michael Noer e Tobias Lindholm autore della sceneggiatura di Submarino (2010), è un prison-movie crudo e duro che sacrifica l’innovazione in favore del metodo. La scelta dei registi, felice per chi scrive, è quella di donare un substrato doviziosamente realistico al loro film, le riprese sono infatti tutte effettuate con la camera a mano in un costante pedinamento, quasi mendoziano, degli attori in scena. Vista l’assenza di un prologo (solo Rune che viene portato nel carcere) la penetrazione all’interno di questa prigione (la più antica in Danimarca ma ormai in disuso) è repentina e senza possibilità di ritorno: la mdp che si divincola nei budelli delle singole gabbie, che si appiccica alla pelle tatuata dei detenuti, che ne coglie la routine e il codice che vige tra essi, traduce perfettamente quel senso di segregazione che nemmeno l’ora d’aria riesce a lenire, forse perché anche il cielo ha lo stesso colore grigiastro dell’istituto.

I puristi del genere non impazziranno di fronte a meccanismi che regolano gran parte delle pellicole di questo tipo poiché anche qui abbiamo diverse fazioni che si spartiscono il limitato territorio del penitenziario, e ovviamente non mancano traffici interni di droga et similia con relativa circolazione di denaro sporco. Inoltre potrebbe apparire altrettanto derivativo il taglio dei personaggi con una netta suddivisione tra i cattivi (davvero davvero cattivi) e i buoni, in questo caso uno solo, o forse due: Rune e Rashid (ecco da dove viene la “R” del titolo). Ma come detto poco sopra il film è tutto da assaporare sul piano del come e allora i possibili punti deboli si mimetizzano tra i colpi brutali esposti con solerzia; l’efferatezza di alcuni passaggi, unita ad una perenne dimostrazione di forza sul più debole, rendono R cinema senza mezze misure, ritratto iperrealista senza grazia, cronaca ruvida e scioccante: di fronte al male l’uomo è nudo.

Lindholm e Noer suddividono il film in tre atti che danno integrità al corpo dell’opera, e parallelamente Rune è protagonista di questi tre passaggi narrativi, perché nel primo, con la trattazione delle regole imposte dai capi, il ragazzo mostra una dolorosa accondiscendenza verso il sopruso eseguendo ciò che gli viene imposto (la pulitura dei cessi) e subendo svariati maltrattamenti (non solo fisici: le foto della fidanzata vandalizzate), nel secondo avviene una piccola svolta che sembra inserire Rune nel tessuto malavitoso, qui, oltre a brevi momenti di spensieratezza (il poker, l’arcobaleno laggiù), viene anche piazzata una metafora nemmeno troppo suggerita: gli uccellini non potranno mai fuggire dalla propria gabbia. Il terzo e ultimo atto oscura definitivamente quel poco di bontà che si era andati a delineare imprimendo sulla pellicola una lacerazione drammatica che apre come una liberazione alla morale personale, svolta ardua (e umana) stoppata inevitabilmente da quell’ultimissimo gesto.
Tre gironi per un inferno dove anche redimersi probabilmente non serve a niente.

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