lunedì 23 luglio 2012

Into the Abyss

Dall’alba al tramonto in un solo anno.
Dall’alba primordiale di uomini che costruiscono i primi mattoni della società, che iniziano a rapportarsi con ciò che è altro da loro, che trovano nella pittura rupestre, e quindi nell’arte, una forma catartica per realizzarsi (Cave of Forgotten Dreams, duemiladieci), al tramonto terminale di uomini che non hanno più alcun riguardo verso il concetto di comunità, che antepongono la proprietà materiale alla propria condotta morale, che tentano di combattere la violenza infliggendo a loro volta la brutalità di un omicidio legalizzato (Into the Abyss, duemilaundici). 
Nell’arco di appena 365 giorni Werner Herzog si occupa prima dei magici anfratti della grotta Chauvet, e dopo delle celle anonime del carcere di Huntsville, Texas, prigione che ingloba dentro di sé un tale di nome Michael Perry, condannato a morte di lì a pochi giorni, focus herzoghiano dal quale l’autore teutonico parte e da cui, con la sua solita curiosità, si allontana sondandone la sfera sociale che comprende i vari componenti della cittadina di Conroe.

Il documento è più che asciutto e mancano i voli pindarici del caso, lo stesso Herzog si limita ad essere l’interlocutore degli intervistati laddove l’intervista diventa il combustibile narrativo. Estromesso dal ruolo extradiegetico di prosatore, il regista si limita ad interrogare chi gli sta davanti; tirare in ballo la cantilena di un autore sempre attento alle figure di confine appare una scontata reiterazione che qui non verrà ripetuta: le donne e gli uomini che delucidano, con sofferenza, i fatti della vicenda sono semplicemente tali, tanto che la sensazione di un Werner “distante” dalle persone è, per il sottoscritto, evidente e ciò influisce sulla riuscita del documentario che è meno personale di quanto ci si possa aspettare. Il metodo colloquiale e le immagini di repertorio pescate direttamente dagli archivi della polizia, rendono Into the Abyss un prodotto non lontanissimo da un qualunque dossier giornalistico.

Ciò non toglie che comunque gli argomenti proposti posseggano un loro interesse.
La panacea vitalizzante è concentrata in un approccio estremamente concreto che, dal punto di vista concettuale, si districa bene su quello che è un campo minato. Maneggiare l’argomento “pena di morte” può comportare il rischio di scivolare nella retorica più stantia, nei processi in piazza più rabberciati. Il film evita questi dossi scontati e sceglie di non schierarsi. Ad esclusione di una breve battuta da parte di Herzog, mai l’opera demonizzerà la pena capitale o men che meno stigmatizzerà l’assassino e il suo complice. È un Herzog pragmatico che cede il palcoscenico alle intime confessioni di chi ruota intorno all’uccisione di Sandra Stotler, e a parte il casus belli al centro dell’attenzione, ci sono molti altri abissi che provocano vertigine (essere stati analfabeti fino al momento dell’incarcerazione; essere in gabbia insieme al proprio figlio; essere incinta di un detenuto tramite – probabilmente – un traffico occulto di sperma dal penitenziario verso l’esterno), vuoti profondi in cui brillano due luci: per una sghemba associazione di idee dalle tenebre riemerge lo sguardo di quella scimmia dietro le sbarre in Echi da un regno oscuro (1990), che poi è lo stesso di Kinski aggrappato al palo di una zattera, cambiano i luoghi e i tempi ma non i precipizi dell’esistenza, e questo Herzog lo sa bene.

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