mercoledì 18 aprile 2012

The End of August at the Hotel Ozone

Post-atomico ante litteram, questo film cecoslovacco del 1967 ha dalla sua un punto in più già dalla partenza: il bianco e nero. Scelta obbligata visto l’anno di produzione, ma aderente a ciò che viene narrato perché Konec srpna v Hotelu Ozon è, come tutte le altre opere equipollenti che gli seguiranno, un film di emozioni slavate, di grigiore umano, di fragile sopravvivenza, di colori stinti, lontani, e in alcuni casi dimenticati se non completamente ignorati.
L’incipit (davvero bello con quell’albero che si abbatte su di noi) cita La donna che visse due volte (1958) mostrando col minimo sforzo – e il massimo risultato – la Storia fino a quel momento, laddove ad ogni anello del tronco corrisponde un avvenimento, una data, un colore.
Ma subito dopo il regista Jan Schmidt si inoltra in una prima parte decisamente piatta in cui accade poco di significativo; si comincia dal falò in cui vengono lanciati dei proiettili, per passare all’apatia verso gli animali (un cane, un serpente, una mucca: nessuno risparmiato). Il tutto pur risultando superfluo ha comunque il piccolo merito di delineare i rapporti all’interno del gruppo composto solo da donne, e si tratta di un rapporto matriarcale dove la donna anziana custode della memoria diventa guida e luce per il manipolo di ragazze che si porta appresso.

Terreno fertile per elucubrare quello che vede il capo sia come figura salvifica alla Saramago che come depositaria del ricordo alla Chris Marker, tanto più che una volta giunti all’Hotel Ozone il film si apre allo spettatore lasciandosi alle spalle quegli inutili giri a vuoto che fino a quel momento lo avevano caratterizzato, e inserendo nella diegesi l’unico uomo (l’ultimo?) di quella terra.
L’Hotel si presenta come isola di insperata umanità, con un bicchiere di latte che diventa sogno realizzato, e poi le sedie, un tavolo, una foto di Napoli, il grammofono che sputa sempre la stessa affascinante musica per quelle orecchie vergini. Tuttavia il pessimismo della pellicola si palesa con la dipartita della guida, e una volta spenta la sua tenue luce il mondo bicolore penetra anche nelle coscienze delle ragazze. L’uomo se ne accorge e le apostrofa in questo modo: “siete delle… bestie!”. Senza salvezza e senza ricordo sono un branco di animali che come nell’indimenticabile finale di Dead Man’s Letters (1986) si inerpica su per il crinale di una montagna, sole e soprattutto senza speranza.

Antiquariato con discreto valore.

4 commenti:

  1. ce l'ho lì da almeno un anno, in attesa del momento giusto. prima o poi mi deciderò a vederlo

    RispondiElimina
  2. non so, pur fatto egregiamente e con diverse scene davvero belle, non mi ha convinto molto. da una parte ho apprezzato l'ottimo sviluppo dei rapporti tra i personaggi, ma dall'altro, il troppo nichilismo mi ha lasciato atterrito. diciamo che sospendo il giudizio fino a una eventuale prossima visione, altrimenti ora mi verrebbe da dargli un poco incoiraggiante pollice verso (in basso :))

    RispondiElimina
  3. Ci sono tante ingenuità che all'occhio odierno vanno difficilmente giù.
    Il mio, come ho sottolineato, ha fatto fatica a digerire la reiterata quanto inutile violenza sugli animali. Però è pur sempre un film che arriva appena 20 anni dopo la guerra e ben prima di tutta l'onda post-atomica cinematografica. Per essere del '67 io me lo faccio andar bene :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. stesso problema: probabilmente sono state proprio quelle scene che me lo hanno reso così antipatico...

      Elimina