Comunque, è molto bello
avere l’opportunità di ammirare l’estro creativo di persone come
Emma De Swaef e Marc James Roels, se pensiamo a quello che i due
giovani registi belgi hanno fatto per Oh Willy… (2012) un
piccolo moto di ammirazione si erge nei loro confronti, d’altronde
è sempre onere di certosina attenzione l’impiego del passo uno nel
campo dell’animazione, in più De Swaef e Roels (ma il merito in
questo campo è della donna che già si era adoperata in questa
tecnica con Zachte Planten [2008] e che fin da piccola ha
imparato a lavorare la lana) costruiscono un set usando
esclusivamente del feltro o materiali equipollenti, quindi è
evidente che dietro il quarto d’ora del corto c’è un laborioso
processo inventivo che né uno sguardo seppur attento e men che meno
una manciata di righe d’apprezzamento potranno rendergli giustizia.
Ad ogni modo la scelta dell’ingrediente che plasma il mondo del
protagonista è vincente perché riesce a trasmettere un’accoglienza
e un delicato senso di sana artigianilità che convincono, così come
a convincere è il character design
del paffuto protagonista e degli altri esseri umani (e non) che
popolano la scena, inutile dire che da quei bottoncini che
corrisponderebbero ai suoi occhi delle frequenze di tenerezza si
propagano oltre lo schermo.
Se
scartabelliamo l’archivio della memoria in cerca di un lavoro
paragonabile ad Oh Willy…
potremmo portare ad esempio Madame Tutli-Putli (2007) data la condivisione
di una similare tecnica realizzativa (anche se, a onor del vero, il
lavoro di Lavis & Szczerbowski aveva inserti di
computer grafica) e di un raffrontabile apparato climatico, però il
corto belga è diverso, perché è vero che possiede una dolcezza di
fondo insindacabile ma è altrettanto vero che si prende la licenza
di andare fuori strada per tangere, neanche ci fosse il grande Roald
Dahl dietro, una dimensione weird che inizia già durante la premessa
(la comunità nudista) e che prosegue con altri segnali non-allineati
alla legge del “corto animato” o in generale alle leggi di una
narrazione accomodante, se si pensa che tutto parte da un blitz
notturno nel bosco per espellere i propri bisogni si comprende la
portata stramba dell’opera (e della luciferina carcassa in
putrefazione cosa vogliamo dire?), al punto che tale traiettoria
assume un’impennata con l’assurda entrata in scena del bigfoot.
Ma è proprio in situazioni del genere, così sbilanciate e un po’
ballerine, che gli autori possono essere definiti bravi, ovvero
quando al di là di qualsivoglia eccentricità permane a fine visione
la pienezza di un senso che qui trova meta ultima e sostanziale nella
ricerca materna, nel riallacciamento del cordone ombelicale, ad un
ritornare nel grembo, nella pancia della mamma per fuggire dalla
realtà: abbandonare la vuota casa ereditata e trasferirsi in un
luogo mentale come la grotta dei ricordi (l’ombrellone…) dove
poter essere, forse, felici.
grazie
RispondiElimina