domenica 29 ottobre 2017

Nowhere Line: Voices from Manus Island

Non brillerà certo per un elevato valore cinematografico Nowhere Line: Voices from Manus Island (2015), ma comunque, e non è cosa inutile, questo corto ha il merito di farsi cronaca moderna portando alla ribalta, per quanto gli è possibile fare, un dramma che pur consumandosi a migliaia di chilometri dall’Europa ci fa pervenire l’eco pericolosa di un monito, soprattutto per la realtà italiana, dove un caso locale, visti i presupposti pressoché identici, è plausibilmente traslabile nei molti centri di accoglienza per immigrati sparsi nel Paese, perché sì, il lavoro di Lukas Schrank, inglese di nascita ma trasferitosi in Australia da tempo, si occupa di quella tragedia telegiornalisticamente defininita fenomeno dell’immigrazione, e lo fa raccogliendo la testimonianza telefonica di due uomini, Behrouz e Omar, fuggiti dalle loro nazioni di origine (uno è un giornalista iraniano, l’altro mi pare non venga detto) per chiedere asilo in Australia, ma la ferrea politica dello stato oceanico che tende a dislocare i rifugiati clandestini al di fuori del proprio territorio si rivela tutt’altro che accogliente spedendo i due in un centro sull’isola di Manus, Papua Nuova Guinea, in cui le tensioni con la popolazione autoctona finiscono nel sangue.

È un argomento delicato questo che avrebbe bisogno di un impegno e di uno sforzo politico reale e non di una bassa demagogia orientata a strappare qualche voto e a fomentare del cieco razzismo, allo stesso tempo è facile parlare da dietro una tastiera per cui, tornando al film, è sicuro che Schrank sa mantenere una posizione equidistante da un qualunque giudizio/commiserazione sia verso i carnefici che verso le vittime, e affidandosi alle conversazioni registrate (sarebbe interessante capire come sia riuscito a stringere contatti con i “detenuti”) non fa altro che annotare e trasmettere la storicità di fatti sommersi (perlomeno in questa parte del globo). Senza faziosità siamo davanti ad un altro sbriciolamento di quelli che dovrebbero essere i cosiddetti diritti umani. La scelta di un’animazione tra il tri e il bidimensionale rappresenta un segno di distinzione che svia i possibili pantani del live action, non siamo in territori esattamente seminali perché ormai, infatti, molti prodotti animati presentano un’ibridazione fra tecniche moderne ed altre più classiche, ad ogni modo ciò non compromette una visione che sul finale si scolpisce nella frase seguente:

“Io non voglio pregare perché non ho religione, ma le preghiere di chi crede comunque non funzionano. Questo genere di cose sull’isola di Manus non funzionano.”

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