lunedì 24 settembre 2012

È stato il figlio

Come per i lavori passati – e sotto questo punto di vista due pellicole come Lo zio di Brooklyn (1995) più Totò che visse due volte (1998) sono esempi di cinema di cui andare patriotticamente fieri – È stato il figlio (2012) è immersione geografica, culturale, dialettale che legittima il forte senso d’appartenenza alla terra natia di Daniele Ciprì, una Palermo che sebbene non sia più trasfigurata dalle macerie di un’apocalisse materiale e spirituale, nello scenario d’antan (suppergiù sono gli anni '70) non perde la causticità della rappresentazione: gli uomini, e il tessuto relazionale che li pone gli uni di fronte agli altri, sono ugualmente mostruosi, intrisi di bassezze, deprimenti per come le loro reazioni agli eventi infausti seguano di più il desiderio di possedere (la Proprietà è il fine ultimo) che quello del raziocinio e/o del sentimento, forse perché lo sguardo d’insieme delinea un mondo-a-parte (similare, dunque, ai film precedenti) sorretto da codici arcaici ineluttabili, costrizioni assunte a priori che legiferano indisturbatamente e che si prendono il palcosenico pur restando latenti o mascherate da un'apparente leggerezza.
Il passo della pellicola è scandito da suggerimenti impliciti che ripristinano continuamente lo stato di cose in quel di Palermo (e l’idea è che poco importi se l'ambientazione venga fatta risalire a 30 anni fa) mostrando ironicamente un crogiuolo di stereotipi meridionali che partendo dall’abc (la gita al mare, la famiglia allargata) si inaspriscono, virano nel sangue (innocente), si ammorbano esplicitando quei “famosi” meccanismi annichilenti dove il denaro spadroneggia e la già citata necessità di avere (la Mercedes è il sogno che una volta violato scatena le ire di Nicola) segue il medesimo tracciato, elementi che coniugati insieme trascinano nella strada del non ritorno una coscienza collettiva (/famigliare) che calcola tramite un cervello matriarcale la personale sopravvivenza proprio attraverso questi due parametri: i picciuli e le cose che si possono comperare con essi.

Ciprì, che in parallelo alla carriera di regista ha portato avanti quella di direttore della fotografia collaborando anche con Bellocchio, fa quello che doveva fare: adopera la commedia per accentuare la drammaturgia di fondo, circuisce creando assurdi teatrini che se spogliati della loro bizzarria presentano un corpo immorale, putrido, vizioso, e, finalmente, tale comicità non presenta la sguaiatezza dei prodotti paratelevisivi italiani del genere, ma, trattandosi dell’autore che per anni ha fatto coppia con Franco Maresco, si imperla di grottesco già all’inizio di quello che poi si rivelerà un vero e proprio storytelling con la brevissima parentesi del vecchio colpito da un fulmine al collo. È un grottesco appagante che nobilita l’intera opera dove, appunto, gli acuti in merito si sprecano e fanno sì che il regista possa sfogare la sua creatività: che sia una canzone a bordo di un relitto arrugginito, o la riproposizione ludica del treno che passa sempre in quel preciso momento fuori dalla casa dello strozzino, oppure la funerea presenza di un uomo nel cortile, l’esacerbazione della realtà non diventa mai forzatura menchemeno maniera, il ritratto palermitano di Ciprì sa essere credibile tanto quanto un’equiparabile visione realistica perché lo scrigno aperto da una chiave così paradossale contiene, ahinoi, le medesime Verità.

In concorso a Venezia ‘12, la giuria presieduta da Michael Mann ha riconosciuto a Ciprì la bellezza di una fotografia catariflangente con il Premio Osella per il miglior contributo tecnico, mentre al giovane Fabrizio Falco è andato il Premio Mastroianni, ma è chiaro che nel cast, perfettamente in parte, spicca il mattatore Servillo, irresistibile e già indimenticabile simulacro subumano. 

10 commenti:

  1. E' uno dei titoli passati a Venezia che attendo di più: spero di poterlo recuperare presto.

    Ad ogni modo, ottimi i riferimenti ai precedenti - tutti mitici - di Ciprì e Maresco.

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  2. Vista la tendenza al ribasso del nostro cinema Ciprì diventa un obbligo.

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  3. son davvero curioso, staremo a vedere... di solito la presenza di Servillo è una garanzia, quantomeno con Sorrentino.

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  4. da scoprire il libro da cui è tratto. merita.

    e la nonna diabolica? da sola vale il biglietto

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  5. Credo che la metamorfosi mefistofelica della nonna sia un punto chiave per comprendere le intenzioni di Ciprì. Le ultime battute sono davvero ad effetto e, passatemi il termine, nel complesso quasi disturbanti.

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  6. Per quanto mi riguarda Ciprì è autore a tutto tondo, uno dei pochi in Italia che ha una sua idea di cinema.Nutro per lui grande ammirazione.

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  7. Il film inizia e le labbra prendono la forma del sorriso immediatamente: risatine seguite da affermazioni sulle "ovvietà" e su quelli che sembrano stereotipi di una società-famiglia, come quella siciliana, che forse non è poi cambiata tanto nel tempo; osservazioni puramente tecniche di conferma e poi...il sorriso si smorza e la bocca si incanta in un "ohhh" prolungato...Sguardo fisso, stupore...esclamazione finale: "ma che bello"...
    Ogni tanto fa piacere poter dire bene di un film "madrelingua".

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  8. Bel film davvero; del resto, prima di questa recente leva di ottimi registi (Frammartino, Marcello, ecc) Ciprì e Maresco erano tra i pochissimi di cui personalmente andavo patriotticamente fiero, come dici tu.
    Un'unica nota in merito al soggetto: non ho letto elementi nefandi, al limite del disturbante, nemmeno nella nonna (che per me non svolta, semplicemente interviene); più che altro "solo" un popolare e spietato pragmatismo, anche dinnanzi alla morte.

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  9. l'atmosfera che viene creata alla fine è quasi distorta, sarà la mdp stretta sul volto della nonna (un'operazione che ho letto da qualche parte come polanskiana e direi che mi ci ritrovo) sarà il pingpong passato-presente, fatto sta che ho avvertito quello, poi per tutto il resto concordo sul pragmatismo sebbene sia sempre e comunque caricaturizzato e portato all'eccesso.

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