lunedì 18 ottobre 2010

L'ospite inatteso

Walter, vedovo misantropo inaridito dal lavoro di professore, cerca l’armonia nel pianoforte. Troverà invece a New York una coppia di colore che vive nella sua casa.

C’è un didascalico contrapposizionismo che si affaccia con modalità diverse in The Visitor (2007, ancora una volta brutta la traduzione italiana).
La prima opposizione, nonché la meno pedante, è quella fra pianoforte e tamburo; il primo strumento necessita di un tocco lieve, precisa pacatezza, – e qui si innesta già la similitudine della vita tranquilla di Walter che ha bisogno di una scossa, di un battito – il secondo necessita di “schiaffi” per essere suonato – che sono quelli che il protagonista moralmente prende e di cui aveva bisogno –, produce ritmo, esce dal seminato dei 4/4 per risultare più libero, selvaggio, o semplicemente diverso da ciò che il professore aveva ascoltato fino a quel momento.
L’altra opposizione principale, fin troppo palese, è quella Walter/Tarek. L’uomo distinto ha una casa, tanti soldi, cultura, educazione, ma ovviamente avendo così tanto sente spiritualmente di non aver niente; di contro il giovane siriano pur non possedendo nemmeno un tetto sotto cui dormire, è felice perché ha un bene inestimabile: il calore umano, prossimità amorevole che dona sostegno, reciproco. Mentre Walter (non) vive col pensiero gelido e inafferrabile (l’inettitudine col pianoforte) del ricordo di sua moglie defunta. Questa antitesi che ha i suoi momenti migliori con la scoperta del mondo nuovo per Walter, dello scontro che diventa incontro, inizia a esaurire il suo discorso già con l’instaurarsi dell’amicizia fra i due. Con l’arresto di Tarek si dissolve, e con lei il film.

Da un tema di spessore come la solitudine di un uomo in là con gli anni con tutte le sue derive malinconiche rese dignitosamente da McCarthy, avviene il passaggio verso un argomento ancora più importante, socialmente (ma anche banalmente) impegnato: la sicurezza post 11 settembre. Il film qua si sfilaccia inesorabilmente e si hanno dei dualismi ancora più ostentati. L’entrata in scena di Mouna si appaia alla figura della moglie morta in un binomio di cui non sentivamo il bisogno dopo i richiami musicali ad essa. Ma la contrapposizione più scadente è quella che pone l’uomo/gli uomini piccoli contro il gigantesco sistema burocratico, del bene (“non ha fatto niente, è innocente”) contro il male. Scivolando inoltre su pericolose bucce di banana fatte di patetismo all’americana con quella ricerca continua di toccare il sentimento dello spettatore accentuando quello sullo schermo, un’operazione che altri hanno effettuato senza un minimo di contegno che qui invece almeno permane, senza però distinguersi troppo.

Richard Jenkis è bravissimo e calza perfettamente il suo ruolo. Peccato che sia costretto a muoversi in conversazioni che toccano punte di legnosità acutissime; in alcuni frangenti trasmettono il comprensibile senso di imbarazzo, in altri una manifesta rigidità che si concretizza in quelle duecentocinquantamila volte circa che gli attori si ringraziano a vicenda. Santo cielo, va bene il bon ton ma sentire “grazie” ogni tot minuti dà parecchio sui nervi.
Occasione mancata.

3 commenti:

  1. io lo vidi un anno fa, a fine visione si ha un senso di incompiutezza, sono d'accordo quando eraser parla dei patetismi ricattatori.

    RispondiElimina
  2. Non lo so, magari sono io (siamo noi) che ormai ho messo una bella barriera tra me e questo tipo di cinema, magari ha ragione lo strillo sulla locandinca che urla al capolavoro...

    RispondiElimina