Il cinema di Bartas è fatto di privazioni. Coraggiose, estenuanti privazioni.
Egli rinuncia anzitutto a Raccontare secondo i termini convenzionali; in Few of Us (titolo internazionale per una volta inferiore a quello italiano), come nelle sue opere precedenti, non esiste storia che si sviluppi tramite l’algoritmo causa/effetto, non c’è una narrazione degli eventi, piuttosto si tratta di sguardi, sbirciate della macchina da presa che gela quadretti di non-vita in un’atmosfera da fine di tutto: degli uomini, dell’amore, del mondo.
Al carico notevolmente indecifrabile si aggiunge la repulsione al dialogo che Bartas proprio non concepisce, quasi geloso delle creature che riprende non permette a noi spettatori di comprendere nemmeno quelle poche parole pronunciate in uno sconfinato deserto di silenzio.
Privarsi degli ingredienti principali che sostanziano un’opera, priva a sua volta lo spettatore di quel coinvolgimento emotivo necessario per far parte del film.
Lo scenario questa volta è naturale, da qualche parte al nord, innevato, alberi spogli e rami secchi, ogni tanto la neve si dirada e da sotto sbucano ciuffi d’erba giallastra. C’è un piccolo villaggio, e una donna (la Golubeva, musa del regista), arrivata forse in elicottero, s’incunea muta nella desolata comunità fatta di vecchi rugosi tormentati da impercettibili tic con poster di donne nude alla parete. Uomini in letargo, brutti, sudati, che risvegliano la loro bestialità sentendo l’odore di una femmina. C’è un ruscello che scorre, delle renne statuarie, una donna con tre denti. Costante brusio in sottofondo che si disperde dentro il respiro della natura, mai così viva nel, fino a qui, metropolitano Bartas.
Come per Three Days (1991) non c’è nient’altro. Ogni interpretazione è lecita, ogni deduzione è consentita.
Faticando per giungere all’agognato finale restano nella memoria i volti dei vecchi incisi da rughe geroglifiche seminascosti nel buio, la loro ripetitività gestuale che pare una condanna nell’inferno di morte che vivono, e l’istantanea della danza. Il ballo è associato per l’ennesima volta all’unione, momento di vago calore umano che tiepido avvicina questi esseri al suono di una fisarmonica, strumento, semplice impressione personale, che più si avvicina al concetto di dio, di un dio triste.
Tutto il resto è stanchezza, sofferenza visiva.
Il cinema di Bartas è per pochi di noi, davvero. E non so se io sono fra quelli…
Egli rinuncia anzitutto a Raccontare secondo i termini convenzionali; in Few of Us (titolo internazionale per una volta inferiore a quello italiano), come nelle sue opere precedenti, non esiste storia che si sviluppi tramite l’algoritmo causa/effetto, non c’è una narrazione degli eventi, piuttosto si tratta di sguardi, sbirciate della macchina da presa che gela quadretti di non-vita in un’atmosfera da fine di tutto: degli uomini, dell’amore, del mondo.
Al carico notevolmente indecifrabile si aggiunge la repulsione al dialogo che Bartas proprio non concepisce, quasi geloso delle creature che riprende non permette a noi spettatori di comprendere nemmeno quelle poche parole pronunciate in uno sconfinato deserto di silenzio.
Privarsi degli ingredienti principali che sostanziano un’opera, priva a sua volta lo spettatore di quel coinvolgimento emotivo necessario per far parte del film.
Lo scenario questa volta è naturale, da qualche parte al nord, innevato, alberi spogli e rami secchi, ogni tanto la neve si dirada e da sotto sbucano ciuffi d’erba giallastra. C’è un piccolo villaggio, e una donna (la Golubeva, musa del regista), arrivata forse in elicottero, s’incunea muta nella desolata comunità fatta di vecchi rugosi tormentati da impercettibili tic con poster di donne nude alla parete. Uomini in letargo, brutti, sudati, che risvegliano la loro bestialità sentendo l’odore di una femmina. C’è un ruscello che scorre, delle renne statuarie, una donna con tre denti. Costante brusio in sottofondo che si disperde dentro il respiro della natura, mai così viva nel, fino a qui, metropolitano Bartas.
Come per Three Days (1991) non c’è nient’altro. Ogni interpretazione è lecita, ogni deduzione è consentita.
Faticando per giungere all’agognato finale restano nella memoria i volti dei vecchi incisi da rughe geroglifiche seminascosti nel buio, la loro ripetitività gestuale che pare una condanna nell’inferno di morte che vivono, e l’istantanea della danza. Il ballo è associato per l’ennesima volta all’unione, momento di vago calore umano che tiepido avvicina questi esseri al suono di una fisarmonica, strumento, semplice impressione personale, che più si avvicina al concetto di dio, di un dio triste.
Tutto il resto è stanchezza, sofferenza visiva.
Il cinema di Bartas è per pochi di noi, davvero. E non so se io sono fra quelli…
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