sabato 6 febbraio 2010

Madre due volte

Dicevano che a sessant’anni avrei potuto riposare.
E finalmente guardare, imparare, osare,
toccare e gustare diversamente
un nuovo mondo, ancorandomi al presente.
Seduta avrei sfogliato dieci, cento fotografie,
ingiallite o spiegazzate, avvolta da mille nostalgie.
E poi aspettato puntuale la chiamata di mio figlio,
lontano una galassia, un universo, vicino d’un miglio,
chiacchierando a vuoto del meno o del più,
ma sentirlo accanto a me anche se lui era laggiù.
Avrei dormito fino a tardi abbracciando il cuscino,
avrei baciato a perdifiato il sole dorato ogni mattino.
E la notte sarebbe diventata mia complice alleata
senza il pensiero nero d’una triste giornata.

Dicevano che a sessant’anni avrei potuto pensare,
tirar le fila, chiedere il conto a questa vita circolare.
Invece, respiro ogni giorno l’aria che mi ha cresciuta,
al capezzale d’una donna dalla faccia smunta e ossuta.
Con lo sguardo assente perso nel vuoto del niente
a ricordare persone, fatti e luoghi vivi solo nella sua mente.
E spaventata domandarmi “chi sei?”, “dov’è la mia famiglia?”,
capendo che in quegli occhietti d’acqua non riconosce più sua figlia.
Ma come una biglia che nel rotolare comprende il suo esser banale,
io m’aggrappo a quest’inverso cordone ombelicale.
Non m’importa quel che dicevano, non m’importa nulla,
se sessant’anni fa era diverso, ora c’è mia mamma nella culla.
Ed anche se non riesce a vagire, o a sputare parole
io non riesco a negarle il mio incondizionato amore.

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