Questo post non esiste. È stato scritto nel futuro per vivere nel passato. Nessuno lo leggerà. Questo è confortante.
Lei ha aperto le gambe,
invitandomi ad entrare.
Da questa distanza è
tutto più chiaro: la mia piccola testa ripiena di materia
celebrale e la sua cruna dall’incendiante fuoco umido, vicine, a
pochi millimetri, una distanza che va soppressa, forza! Le carrucole
gengivali gettano un ponte: è la mia lingua! Da timida
umettatrice si trasforma in flagello arrovellato nelle frattaglie
salate e tenta di spingersi oltre la sua esigua lunghezza, roteando
e spiralizzando l’ammasso di piccoli lembi che si trova a
rimestare. Ma è troppo poco. Il buco è calamita, è
sirena che chiama a sé. Vi lascio tutte le albe che volete,
ora è il mio momento, ora, io, entro. Scivolo sulla sua pelle,
sento tra le giunture degli arti che i corpi sono vicini alla
tensione assoluta, c’è una nuvola elettrica che ci avvolge,
ci sono lampi che flashano la stanza, tuoni fragorosi che coprono i
versi neolitici partoriti dalle mie corde vocali, afferro il pene
alla radice per indirizzarlo là dentro, per compiere il gesto:
alla prima spinta pelvica lei svanisce, ed anche tutto il resto si
smaterializza. Non c’è più il letto cigolante, non
c’è più la scrivania con sopra l’obsoleto pc,
non ci sono più le mensole zeppe di libri ordinati in misura
decrescente, dai più grandi ai più piccoli, non ci sono
più i poster adolescenziali mai staccati dalle pareti, non c’è
più lo scotch fossilizzato che, per qualche inspiegabile legge
chimica, li teneva ancora appiccicati, non ci sono nemmeno più
le pareti, né il pavimento e quello che dovrebbe starci a
ridosso, tipo travi, tubi, mattoni, non c’è nemmeno
l’appartamento al piano di sotto, che se la vecchietta potesse
vedermi sgranerebbe un rosario lungo novanta metri, non c’è
più un sotto o un sopra: ci sono solo io, e, lontana, appena
percettibile, una voce simile a quella di A. Hegarty che canta cose
dolcissime ed inquietanti. Eppure, nel non-spazio in cui mi trovo,
non riesco a stare fermo, una forza oltre me obbliga i miei
addominali a contrarsi, ed ogni strappo è sempre più
violento, ed ogni spinta pelvica nel vuoto è una frustata
ammutolente, sento che la spina dorsale si sta facendo elastica
slegandosi dalle normali costrizioni ossee. È così che
succede allora? Un altro colpo. È così che ci si
genera? Un altro ancora. Big-bang umano: la mia schiena è
totalmente arcuata, sono uno yo-yo costretto da questa forza anonima
a spingere con gli ultimi, residuali, tessuti muscolari, verso il mio
ultimo buco, la bocca. Roteo come un derviscio appallottolato
nell’aria amniotica, le mani arpionano i femorali, da qui la punta
del pene è un mostro che si avvicina minaccioso, la fessura
uretrale è una voragine che mi squaderna la sua natura di
spiraglio su un mare lattiginoso. Cerco di serrare la bocca, digrigno
i denti, ma è tutto inutile, divento la bandiera bianca di me
stesso, autoaffondo, così, volteggiando in questo circolo che
non ha più niente di sessuale, è tutto dolore e puzza e
disagio, il cazzo, il mio, si introduce nel palato con ferrea
propulsione, non posso fermarlo, cosa sono diventato?, il movimento
pendolare, anche se incapsulato nella girandola-me, non vuole
placarsi, il glande entra ed esce, entra ed esce quel tanto che
basta.
Per venire.
Hegarty o chi per lui
smette di cantare. Un calore si irradia fuori e dentro quello che
convenzionalmente ho sempre chiamato “io”. È una marea
pacifica in cui sento di voler affogare. Adesso è tutto molto
più complicato.
Adesso niente è
più chiaro.
Adesso vi spiego tutto.
Adesso nasco.
Adesso.
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