sabato 21 maggio 2011

Pleasure Factory

Una musichetta così simile a quelle che tanto ama Tsai Ming-liang – sarà deformazione da cine-blogger ma giurerei che una scena del film sia accompagnata dalla stessa melodia cantata in Face (2009) da Laetitia Casta – solleva il sipario su uno dei luoghi in cui come recita il plot di IMDb ci sono persone che cercano piacere e altre che lo danno. Non siamo nel Red Light District di Amsterdam ma a Geylang, sobborgo di Singapore, un tempo luogo centrale per la coltivazione del cocco e oggi ombelico del mondo (marcio) della prostituzione asiatica.

Se nello score ho rintracciato qualche reminiscenza tsaiana, beh, anche nei contenuti si potrebbe ritrovare una simile non-poetica di fondo. Le basi su cui il regista Ekachai Uekrongtham (thailandese, e non poteva essere altrimenti con un nome del genere) edifica il film poggiano sull’ennesimo ritratto di uomini solitari all’interno di fagocitanti contesti urbani. Poi c’è indubbiamente l’attenzione nel mettere in mostra il lavoro delle ragazze, a tratti si naufraga nella denuncia sociale con delle pseudo interviste ai protagonisti, tuttavia è mia opinione che chi va con una prostituta sia essenzialmente una persona sola, ed anche le suddette meretrici dubito che navighino in un mare di salda amicizia, quindi sì, ok far vedere il ghetto, i vicoli luridi, le donne schierate in fila per essere scelte, la rassegnazione delle più anziane, il terrore di quelle più giovani, va bene tutto, ciononostante il film si allinea al trend asiatico degli ultimi anni forgiando la sua tesi su una materia prima inconfondibile: l’emarginazione, l’esclusione, in una parola la solitudine.

Le assonanze con Tsai si fermano qua, comunque. La tecnica registica non si sposa granché con la profondità visiva del maestro taiwanese. Sebbene vi siano lunghi momenti di silenzio la mdp non ha focalmente delle traiettorie geometriche particolari poiché il taglio dato è alla ricerca del realismo con aggressioni costanti nei confronti dei soggetti ripresi che annientano lo spazio circostante.
Nello specifico abbiamo tre istantanee dedite a narrarci la realtà di Geylang in una coralità anticonvenzionale: la prima situazione vede una debuttante accolta sotto l’ala protettrice di una collega esperta, la seconda un giovane alle prese con l’ansia della prima volta e la terza con un menestrello prima intimorito e poi tranquillizzato da una donna di strada nella sua camera. È con questa triplice visione che la pellicola perde smalto perché a mio avviso da un lato ci vengono mostrate circostanze prevedibili (la ragazzina che non vuole avere rapporti col vecchio, la nostalgia per la figlia lontana e in generale le dinamiche relative alla “compravendita”), mentre dall’altro il nascere quasi spontaneo di amori impossibili fra la battona e il cliente risulta poco credibile vista l’aderenza alla realtà ricercata dal regista.

Questa sballata rappresentazione del sesso che pare trasformarsi con poca avvedutezza in qualcosa di più, non preclude ad ogni modo la possibilità di assistere a sequenze di buon cinema soprattutto durante i rapporti sessuali che sprigionano spontaneità molto intensa.

4 commenti:

  1. ciao amico..le tue recensioni son sempre più interessanti..attendiamo dumont nelle sale...

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  2. Temo che sia una vana attesa, brazzz. Dumont nelle nostre sale la vedo come un'utopia :(

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  3. bè,il modo di vederlo...visti i premi del festival?

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  4. Malick me lo vado a vedere appena posso. Il campanilismo nostrano sperava in Sorrentino, un po' anche io, vabbè avrà occasione per rifarsi, è giovane.

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