lunedì 18 aprile 2016

Marilena from P7

La morte di Cristian Nemescu avvenuta nel 2006 ha spinto gli addetti ai lavori ad affermare che in quell’incidente stradale il cinema europeo aveva perso uno dei virgulti più promettenti appartenente ad una nuova corrente artistica al tempo ancor più interessante, e il riconoscimento postumo per California Dreamin’ (2007) in quel di Cannes non ha fatto altro che confermare i pareri positivi sul giovane rumeno scomparso a ventisette anni. Ma il percorso che lo portò alla realizzazione del primo e ultimo lungometraggio è stato scandito da una manciata di corti che trovano punto d’arrivo in Marilena de la P7 (2006), opera di passaggio dai cimenti giovanili verso il gran debutto che copula amorevolmente con i tòpoi del cinema rumeno contemporaneo, e perciò anche qui la traiettoria di movimento affonda nel realismo, in una ricerca che accomuna tutti gli autori della Romania i quali riprendono ciò che i loro occhi vedono o hanno visto, e raccontano quello che la Storia ha lasciato, dei vuoti incolmabili e dei dolori trasmigrati alla generazione odierna; orbene, a prima vista Nemescu non fa altro che imbracciare la sua cinepresa e seguire un ragazzino di nome Andrei che passa le giornate a bighellonare con gli amici mentre intorno a lui il quartiere degradato offre il peggio che ha da dare: grigiore, cemento, zii ubriaconi, papponi, puttane. Lo spaccato sociale è perciò così delineato e se fosse rimasto in primo piano invece di scivolare ben presto sullo sfondo come in effetti accadrà, il mediometraggio sotto esame non si sarebbe ricordato ad imperitura memoria, invece Nemescu è bravissimo a svincolarsi dalle ganasce dell’”impegno politico” per guarnire il film con temi di una vastità tale da sconfinare nell’universale.

Perché si parla di amore in Marilena de la P7, con un tatto e al contempo con un’incisività che generano un’immediata empatia con Andrei e le sue mire sentimentali. Il conflitto è forte: in un posto dove non c’è spazio per il cuore (né sul marciapiede né in casa [i genitori]) fiorisce un romanticismo infantile che si scontra con la realtà seguendo direttive adolescenziali, quindi utopistiche, smanioso di voler conoscere il corpo-Donna innamorandosene da lontano, da sopra un tetto, in un’isola di innocenza destinata a scivolare giù, nella strada (il primo sogno). Nemescu supera le paludi di un’ostinata drammaticità (cosa che a mio avviso è da imputare al connazionale Mungiu) adoperando la panacea di tutti i possibili mali: l’ironia intelligente, nello specifico tagliente, che delinea l’incontro impossibile tra un bambino e una prostituta e, di riflesso, lo sgretolarsi del Primo Amore di fronte all’ineluttabilità del sangue, versato a sua volta per cause affettive. La succitata ironia trova sfogo in intuizioni semplici, anche artigianali se vogliamo, eppure d’una brillantezza appagante dove il regista sciorina talento, inventiva, voglia di sorprendere con improvvisi split screen (l’alternanza dello schermo frazionato prima con le meretrici che fanno sesso e dopo coi ragazzetti che si masturbano nei loro letti è geniale) e soprattutto con l’intraprendenza di chi non si accontenta di svolgere il compitino e sovrappone i registri, tinge la periferia rumena con pennellate surreali (Marilena e il potere di mandare in cortocircuito gli impianti elettrici e quelli… cardiaci), apre finestre oniriche di deliziosa ingenuità (l’invasione “aliena” ancora più geniale), e poi con avidità risucchia tutta la leggerezza fino a quel momento rappresentata inscenando la fine dell’estraneità di Andrei dal mondo degli adulti, una maturazione fulminea, luttuosa: la prima cicatrice che non se ne andrà facilmente e che farà male per molto tempo ancora.

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