martedì 31 marzo 2020

Your Face

Ricordo bene la preoccupazione degli appassionati che aleggiava intorno a Stray Dogs (2013), a quei tempi le voci che davano il film presentato a Venezia ’13 come ultimo film di Tsai Ming-liang impazzavano per la Rete e quindi una volta visionato e una volta giunti a quella lunga sequenza conclusiva i commenti, compreso ovviamente il mio, non lesinavano slanci di carattere testamentario, epigrafico, tombale, come se non ci sarebbe potuto essere un dopo. In realtà ci sbagliavamo di grosso perché “un dopo” c’è stato eccome, basta prendere la pagina IMDb del regista per vedere che la sua produzione dal 2013 in poi non solo è continuata ma forse si è addirittura infittita, semplicemente il maestro di Taiwan ha deciso, dopo una serie di indimenticabili lungometraggi che sembrano, oggi, praticamente un tutt’uno, di sondare altri territori, altri formati. Ad onor del vero questa tendenza meno tradizionale si era già palesata con il primo episodio del monaco errante (Walker, 2012) proseguita con altri due, a mio avviso dimenticabili, passaggi bradipeschi, Journey to the West (2014) e No No Sleep (2015), ma è con Afternoon (2015) e The Deserted (2017) che facciamo conoscenza con uno Tsai decisamente intraprendente pronto ad uscire dal recinto in cui, per la nostra felicità, ha razzolato a lungo. Alla luce di tutto ciò non sorprende un film come Ni de lian (2018), siamo in presenza di un nuovo tassello minore della sua filmografia, un documentario girato in un digitale che ci fa quasi vedere la porosità della pelle facciale da quanto è alta la definizione, un lavoro sulle persone (come sempre del resto), sulla loro vita, sui loro ricordi, incastonati nello schermo con tempistiche e modalità che rimangono, sempre, tsaiane.

Senza far mancare una tiratina d’orecchi a chi ha deciso il titolo internazionale perché così facendo abbiamo un Face (2009) e un Your Face che non suonano granché bene, se si scorpora l’impianto innovativo utilizzato dall’autore, ovvero la sequenza di pseudo-interviste da parte di soggetti sconosciuti, quello che rimane è, per quanto mi riguarda, una forte continuità col passato, soltanto proposto in altre vesti. Mentre ascoltavo le confessioni della donna super impegnata nel lavoro o mentre il tizio dipendente dalle slot machine ci ragguagliava sulla sua mestizia, io non ci ho visto nient’altro che la trasposizione scevra del filtro finzionale delle storie che Tsai ci ha raccontato da Rebels of the Neon God (1992) – e sicuramente anche prima – in avanti. Quante sconfitte, quante sconvolgenti solitudini, quanti amori smarriti, quante lacrime amare hanno colmato i minuti delle opere di Tsai? E quanto delle medesime sensazioni si sprigiona dai monologhi dei soggetti in Ni de lian? E non solo dalle parole perché anche dai silenzi di questi esseri umani, esattamente come dagli infiniti silenzi minglianghiani, si può evincere qualcosa: un vecchio signore si commuove, un’altra ride per stemperare l’imbarazzo. Abbiamo una sovrapposizione tra l’idea di cinema di ieri e quella di oggi, concettualmente Your Face, sebbene esteriormente si mimetizzi in un’estemporanea ricerca antropologica, rimane Tsai al 100% con quel complesso ventaglio di emozioni impresse da decenni nell’albo dei ricordi cinefili, e a fornire una specie di sigillo di garanzia ci pensa l’inserimento finale del sempre fedele Lee Kang-sheng, un segnale che sta a dirci che comunque, al di là della forma data, Your Face mantiene un’evidente paternità.

Non vorrei però far venir meno alle riflessioni soprastanti una questione a cui tengo: detto papale papale io non mi accontento, non mi sono accontentato di vedere un Lee vestito da monaco che camminava a rallentatore così come non mi basta uno studio di primi piani in cui ravvisare marchi di fabbrica e/o segnali distintivi. Pretendo dell’altro da parte di uno come Tsai Ming-liang, ne ho bisogno in quanto spettatore perennemente alla ricerca di un nonsoche che spero sempre di ritrovare nella settima arte. È possibile che Days (2020) darà delle risposte a proposito.

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