giovedì 19 marzo 2020

The Forest of Love

Di tutti gli innumerevoli generi affrontati da Sion Sono in altrettante innumerevoli opere, ce n’è uno che nell’incontrollabile marasma generale si è ritagliato un ruolo tutto suo: quello del film dentro al film, che capisco non sia definibile come genere tout court ma che comunque detta una serie di connotazioni evidenti nelle quali si ravvisa un pattern sononiano forse retaggio direttamente autobiografico, perché ognuno di questi esemplari filmici vede, ancor prima di potenziali riflessioni meta (che a Sono non interessano poi così tanto), la riscrittura della propria carriera, soprattutto la parte riguardante gli anni della giovinezza pieni di speranze e voglia di fare, di volta in volta Sono ha affidato la parte di se stesso a qualche imberbe ragazzino con il pallino del cinema che, sempre circondato da una troupe al limite del circense, si mette a girare con in mano una videocamera storie e situazioni in pieno Sono-style. Magari dimenticherò alcuni titoli, di certo nei seguenti, chi più, chi meno, ci sono innumerabili conferme: Jitensha toiki (1990), Into a Dream (2005), Why Don’t You Play in Hell? (2013), Antiporno (2016) e ora anche Ai-naki mori de sakebe (2019). Sicché la domanda si profila secca e necessaria: era davvero indispensabile riproporre nuovamente l’ennesima minestrina dal già visto impianto? Ovviamente no, e infatti mi sentirei di urlare un grosso BASTA a Sono, a cui seguirebbero altri basta del tipo: basta all’imperterrito overacting degli interpreti in scena, basta alle famiglie disfunzionali che attraverso il ciclo parossistico passano da persone normali a pazzi scatenati, basta a Mitsuko, basta ad un’effettistica da b-movie, eccetera eccetera, se non che una tale “protesta” si scontra con la realtà dei fatti, che poi è, o potrebbe essere, un’attenuante che val la pena rimarcare.

Sì perché The Forest of Love è la prima produzione di Sono distribuita da Netflix (e ricordo che giusto qualche anno prima il [fu?] Signore del Caos era finito nello streaming di Amazon con la serie Tokyo Vampire Hotel, 2017), e quindi verrebbe da pensare che, nell’ottica di una smisurata accessibilità garantita dalla piattaforma californiana, Sono abbia optato di fare una pellicola-compendio del suo cinema. Poiché comunque, oltre al discorso giovani-registi-in-erba, The Forest of Love è, con tutti i pregi e i difetti immaginabili, un film che anche un cieco attribuirebbe al regista giapponese, non so se l’alta riconoscibilità si possa considerare come un plus ma questo è quanto, e, nello specifico, è tanto, come da tradizione è tutto tanto, a partire dall’etichetta in cui inquadrare la faccenda, è un teen-romance dalle sfumature pink? È un crime con serial killer e vittime designate da un albo scolastico? È una commedia che ha ipocentro nell’imbroglione Joe Murata? È un dramma che sfocia nello splatter (e mi raccomando, i manichini di cartapesta non facciamoceli mancare)? È una sorta di coming of age dove la crescita di Mitsuko è una scala fatta di gradini esasperati? Che domande banali! È palesemente un frullato che mischia queste cose e in cui ci sarà sicuramente dell’altro che mi è sfuggito, e nel suddetto frullato una storia si distende per un numero di minuti che non ci meritiamo, manca equilibrio, la narrazione procede per folate, va in una direzione, tipo: l’excursus su Murata e sulle sue doti da impostore, e poi ne segue un’altra che mal si concilia, ancora: Murata si mette in testa di fare il regista, così, dal nulla, giusto per far combaciare la parte del playboy pervertito con quella dell’aspirante director, arrivati all'acme si ricade in e su un’idea di violenza che, seppur “forte”, provocatoria o quel che si vuole, è strarisaputa e, appunto perché conosciuta a menadito, priva di efficacia, infine si tenta un’impossibile chiusura del cerchio facendo leva su un colpo di scena dove Sono sente lobbligo di svelare il nome dell’assassino, rivelazione superflua perché intanto la serie di omicidi non compenetra mai nel filone principale.

La riflessione su The Forest of Love è strettamente legata al mio trascorso spettatoriale in ambito Sono perché di lui ho visto molt(issim)o e ormai è un bel pezzo che non riesce più a stupirmi (c’è stato solo il tenue brillio di The Whispering Star [2015] a rinfocolare qualcosina), sarebbe più interessante allora sentire l’opinione di chi del sedicente maestro è a completo digiuno, potrebbero uscire commenti lusinghieri, gli stessi che avevamo proferito ai tempi di Cold Fish (2010), chissà! Nel frattempo aspettiamo ciò che era inevitabile sarebbe accaduto: lo sbarco di Sion Sono in America (c’era già stata una sortita con Hazard [2005] ma ora sarà diverso), è di prossima uscita Prisoners of the Ghostland (2021), primo film in lingua inglese che annovera nel cast nientepopodimeno che Nicolas Cage. Ci sarà da ridere.

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