mercoledì 4 marzo 2020

Vitalina Varela

È dai tempi del magistrale Colossal Youth (2006) che Pedro Costa ci racconta come Fontainhas, quartiere di Lisbona popolato da immigrati capoverdiani, sia prossimo allo sfacelo, eppure da quel film in poi ci sono stati molti altri lavori del grande regista portoghese ambientati nel medesimo luogo, tanto da domandarsi se questa porzione urbana ormai ridotta ad una baraccopoli non sia diventata uno spazio astratto che non esiste più nella realtà oltre lo schermo ma che, di contro, esiste nel mondo costiano, configurandosi quindi come una geografia filmica ad alto tasso distintivo, basta un fotogramma, uno sguardo, un volto per capire dove siamo. A dar man forte alla mia supposizione c’è un’intervista (link) in cui Costa asserisce di aver girato Vitalina Varela (2019) nella vera casa della protagonista che si trova a Cova da Moura, una zona della capitale portoghese abitata principalmente da persone di origine africana, ma per quanto ne possiamo sapere, quei vicoli, quelle grondaie arrugginite, quei tetti sfondati, e ogni angolo, o gatto o fantasma o penombra umida ci riporta a Fontainhas, a Vanda Duarte, a Ventura. Insomma, sembra chiaro al sottoscritto che Costa ha creato un abisso cinematografico specificatamente suo, un presepe eternamente immerso nelle tenebre che, a prescindere dallo scorrere del tempo, ammesso che scorra davvero perché il suo cinema oltre ad essere aspaziale è fortemente atemporale, ristagna sempre lì, esattamente dove Ossos (1997), In Vanda’s Room (2000), Colossal Youth (2006), O Nosso Homem (2010) e Cavallo Denaro (2014) esistono senza un prima o un dopo in una dimensione che sa di requiem eterno.

Ma quale è e di chi è la memoria che si onora in questa liturgia funebre? Per Vitalina Varela è fin troppo facile individuare nel marito deceduto (ah: ma come è morto questo povero uomo? Perché quei tizi all’inizio tolgono dal letto delle lenzuola sporche di sangue?) il fulcro commemorativo, le cose stanno effettivamente così: con l’arrivo della donna in Portogallo, a suo modo Costa le e ci fa ripercorrere una vita fatta di indicibile amarezza, sono infatti di una potenza inaudita i monologhi di Vitalina (o magari dialoghi sordi con lo spettro del marito) dove racconta come è stato complicato il rapporto con il coniuge Joaquim, della fuga di quest’ultimo a Lisbona e della difficoltà tipica di chi versa in condizioni deficitarie, quella di tirare avanti. L’elegia dell’uomo, in un film che, tra l’altro, pullula di figure maschili lasciando a Vitalina un ruolo quasi residuale, da outsider in una realtà di outsider, è il film stesso, è una lunga messa che oscilla tra il sacro ed il pagano recitata in punta di ricordi e scossa da una rabbia femminile che è un terremoto, una scossa che per via della complicata conformazione dell’animo umano contiene anche dell’amore. Tutto vero e tutto, per quanto mi riguarda, meraviglioso, eppure non è davvero tutto, perché a questo punto della carriera di Costa possiamo dire con una certa sicurezza che quella memoria che torna e ritorna nel ciclo di Fontainhas non è individuale, è collettiva, è una matassa originatesi, forse inconsapevolmente, nel debutto Casa de Lava (1994), e che si è protratta di pellicola in pellicola raccogliendo il gigantesco fascio di sentimenti emanato da cristi spiantati che hanno lasciato casa in cerca di un futuro migliore, e allora ecco che, se non ve ne eravate accorti, ogni manifestazione artistica del lusitano è il grido universale dell’immigrato, l’esplorazione silente del suo trascorso, l’autopsia del presente, la chimera di un futuro in costante ritardo.

Legato soprattutto a Cavallo Denaro per via di una specie di scambio di ruoli, nell’opera del ’14 Vitalina aiutava Ventura nelle vesti di lontana parente mentre in quella del ’19 è Ventura nei panni di un prete che si impegna a darle una mano, Vitalina Varela si asciuga forse delle stordenti graffiate oniriche che caratterizzavano il film precedente, tuttavia il reale di Costa non è una banale registrazione degli eventi, c’è molto di più nelle immagini che propone, e non è solo il sublime apparato estetico (per non dire di quello acustico) che ci regala la più fulgente trasposizione in video di Caravaggio, è piuttosto la meta formale dove il portoghese arriva, una sorta di iperrealismo traboccante di spiriti neri dalle sembianze umane o viceversa. Non ci si può nascondere, qui stiamo parlando di un’esperienza visiva e mentale senza pari, di un tuffo nell’ombra più densa che potete immaginare per giungere alla conclusione che no, non vi aspettavate che il cinema potesse scendere così tanto nelle atre profondità dell’umano, nel midollo scuro e lercio dove, per forza del contrasto, si annida l’abbacinante splendore della bellezza: centesimo minuto o giù di lì, Vitalina aggiusta il tetto della catapecchia con alle spalle un cielo in tempesta dipinto da un qualche artista romantico, cambio scena e una giovane donna di colore, mai vista fino a quel momento, è seduta su un letto mentre un uomo le dà la schiena, la donna esce dall’abitazione, il vento fischia forte accarezzandole la gonna, intorno a lei delle montagne brulle che non sono di certo il barrio, né Lisbona, né l’Europa. Siamo altrove. Nel ricordo, nel passato, siamo dove non ci aspettavamo di essere dopo un’ora e passa di claustrofobico reale. Dove la letteralità non ha asilo, dove un accostamento tra due immagini è la crepa che fa straripare la diga. Ed è semplicemente bellissimo.

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