giovedì 2 aprile 2020

Prehistoric Cabaret

Prehistoric Cabaret (2014) è un qualcosa (e che cosa sia, nello specifico, non saprei dirlo) che andrebbe sempre anteposto ad un nuovo film di Bertrand Mandico, questi nove minuti e rotti secondi nella loro ridotta dimensione sono una via di mezzo tra il manifesto programmatico e le istruzioni per l’uso. Brevemente: siamo in una specie di night club (nelle sinossi in Rete si dice che ci troviamo in Islanda ma io francamente non ho trovato riscontri) e l’anfitriona del locale (Elina Löwensohn, presenza fissa nelle produzioni di Mandico) invita un gruppetto di insonnoliti astanti a seguirla in un viaggio che li condurrà fino al centro della Terra. In realtà il tragitto è breve ma non meno recondito, con quello che probabilmente è un butt plug mascherato da videocamera, la donna protagonista si autopenetra per realizzare una colonscopia dagli artistici effetti. Ciò che il pubblico dell’affumicato club vede (e quindi noi con loro) fin dentro l’ugola della donna sono delle interferenze autoriali, dei lampi di estro, delle parentesi che si affacciano su strani mondi prettamente mandichiani, ma si tratta giusto di istanti, di strane scritte che sembrano (o magari sono a mia insaputa) i titoli di qualche opera di genere degli anni ’70-’80.

In tal senso è quasi palese il motivo per cui Prehistoric Cabaret non è un’introduzione ma L’Introduzione all’universo del regista di The Wild Boys (2017) che, impersonificato dalla figura dell’intrattenitrice, ci dice, non senza ironia visto che la via d’accesso sarebbero le sue... terga, quanto ogni lavoro da lui firmato (leggi: ogni viaggio al centro non della Terra ma del cinema che propone) sia un percorso che non prescinde mai da un preciso bagaglio culturale proveniente dal passato e da definiti elementi connotanti radicati nel presente (mi ripeterò ma ecco, ancora, quel curioso erotismo, quelle manifatture caserecce, quell’atmosfera d’antan oculatamente confezionata). Insomma, dietro l’apparente nonsense il senso è, piaccia o non piaccia, tutto autoriflessivo, pienamente in linea con l’idea di settima arte che il francese sta portando avanti da un paio di anni. E se non ne siete convinti a chi credete siano rivoli i reiterati “did you like it? Then, say it!” che autisticamente chiudono il corto se non agli spettatori in carne ed ossa al di qua dello schermo?

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