venerdì 17 giugno 2016

Porfirio

Pare che sia una storia vera, ossia che un disabile stufo di aspettare invano dei soldi dovuti dallo Stato, abbia tentato di dirottare un aereo con due granate. Vero o no poco ci importa perché quella dell’esordiente Alejandro Landes, nato in Brasile da madre colombiana e padre ecuadoriano, è tutta la storia che c’è prima, Vangelo di un povero cristo condannato alla sedia a rotelle per via di una pistolettata alla schiena (ce lo dice già la locandina, vedete?), venditore di minuti, innamorato della donna che abita con lui (una prostituta?), padre di uno scavezzacollo, cittadino indignato e inerte, in due parole: Porfirio Ramirez.

C’è tutto un mondo dentro Porfirio (2011), film girato in Colombia con danari – anche – europei (presentazione a Cannes), micro-universo tragicomicamente delizioso, anzi: delicato nell’enucleare quello che sulla carta è un dramma umano di proporzioni rattristanti: Porfirio, dignitoso spiantato, alle prese con l’Abbandono, non tanto famigliare perché il giovane figlio fa quel che può (quando ne ha voglia), bensì Istituzionale, lasciato su una brandina nel suo appartamento spoglio in attesa di un qualche emolumento che gli spetterebbe di diritto, e intanto, giornalmente, ingoiare il boccone amaro dell’immobilità, della non-autosufficienza, della necessità di dover dipendere dagli altri anche per i gesti più “semplici” (perfino per defecare c’è bisogno di una “mano”), convivere con l’umiliazione di non poter mai uscire di casa sulle proprie gambe per fare una passeggiata, sognando cose bellissime e lontanissime, fissando il mulinare delle zampe dei cavalli alla tv (controbilanciate beffardamente dall’immediata scena successiva dove un bruco striscia vicino ai piedi del protagonista). Di materiale per inscenare una lacrimevole parabola istruttiva ce n’era pericolosamente tanto ma per fortuna Landes fa quello che era più intelligente fare: usa l’affilata ironia sgravando la tragicità per renderla appetibile, empatica, maggiormente autentica di qualunque altra manifestazione romanzata, perché il pregio capitale di Porfirio sta proprio nella genuinità che irradia (gli attori non sono professionisti), come se Landes non si fosse dovuto inventare niente perché quello che aveva di fronte alla mdp sarebbe accaduto anche a luci spente, naturalmente.

Come per Octubre (2010) siamo al cospetto di un cinema squisitamente intimo, che dà del tu, con il quale è automatico entrare in sintonia, un cinema orgogliosamente anti-hollywoodiano che ci restituisce la bellezza della caducità corporale (cfr. Battaglia nel cielo, 2005), descrivendo con una dolcezza velata ma intuibile il profilo di un eroe che appartiene alla categoria dei perdenti, quella che più ci piace vista la grandezza dell’impresa e l’esiguità di chi la tenta, non si scoraggi però señor Porfirio, anche se non è riuscito ad ottenere i soldi dallo Stato, si è guadagnato la nostra infinita stima.

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