martedì 19 luglio 2016

The Beast Pageant

Iniettatevi questo siero di pura alterità visiva, The Beast Pageant (2010) è il film che ancora non avete visto. Debutto a cui fino ad oggi non è stato dato un seguito da parte di due ragazzi americani, tali Albert Birney e Jon Moses, ad un’opera del genere non si può che volere un mondo di bene, e la motivazione, forse un po’ stupida poiché un filo romantica, è che dà un certo sollievo sapere che all’interno di quel sistema statunitense che ha standardizzato la settima arte, esistono ufo destabilizzanti capaci di opporre una pervicace resistenza alle odiate politiche che li accerchiano, e non c’è mumblecore che tenga perché qui siamo ben al di là delle storielle sussurrate che pur rispettabili non possono di certo accendere la sacra fiamma della visione. Ad onor del vero The Beast Pageant non è un prodotto che può considerarsi seminale visto che sono piuttosto palesi i riferimenti dai quali pesca a mani basse, ma io credo che quando ad un budget presumibilmente poverissimo si risponde con la ricchezza delle idee allora la strada è quella che porta proprio lì, in quei territori dove la libertà artistica è fine ossigeno che rigenera la proiezione, dove i canoni crollano e l’andamento si fa imprevedibile, dove la curiosità verso quali saranno le misure prese dai due registi per stendere il corso della narrazione diviene benzina ad ottani infiniti.

Sì, mi si potrà inoltre obiettare che comunque The Beast Pageant ha una sua traccia e che forse non è nemmeno troppo innovativa, abbiamo infatti un ragazzo imprigionato in una realtà alienante che potrebbe essere vista come un’esacerbazione del sistema consumistico dove la pubblicità domina l’esistenza e un momento di umanità è solo la proiezione celebrale indotta da una sorta di androide domotico ante litteram, io comunque invito a posare l’attenzione più sul metodo espositivo che su quello tematico perché è così che si può comprendere di come ogni storia, alla fine, abbia potenzialità inesauribili. Volendo concentrarci sulla proposta del duo Birney-Moses abbiamo l’occasione di sfogliare un album multicategoriale che muta camaleonticamente pelle in base alle atmosfere che vive, questa prosperità vivificante che fornisce una forma prismatica, o forse più una non-forma mercuriale, mette lo spettatore all’angolo inevitabilmente felice di incassare colpi che arrivano dalla fantascienza oramai vintage di Tsukamoto e Pi Greco (1998), dalle finestre oltredimensionali di Lynch (la presenza sibillina dell’uomo-anguria), dallo stop-motion del grande burattinaio Švankmajer, dagli ingressi sonori alla Mihály Víg (giuro!), dall’imbrunimento quasi horror del finale dove il nonsense riesce ad assumere lo status di senso, più o meno come accadeva in The Temptation of St. Tony (2009) di cui The Beast Pageant sembra la versione “fatta in casa”. Per l’anarchia impiegata dal duo registico il film in questione potrebbe avere anche qualcosa di accomunabile a Boro in the Box (2011), sebbene forse l’accostamento è accecato più da un simile vestito che da un contenuto chiaramente divergente, invece è molto più verosimile vedere nei film di Cory McAbee (The American Astronaut [2001]; Stingray Sam [2009]) una traiettoria cinematografica equipollente, ammesso che il voler ricercare possibili fratellanze sia un atto intelligente da fare.

Eppure, oltre tutte le influenze rinvenibili, l’opera di Birney & Moses mantiene una cifra personale profonda e ammirevole, ed è in prodotti del genere che una fiammella chiamata speranza continua a bruciare con tutta una sua signorile dignità nonostante metta in mostra una follia sgangherata, d’altronde ciò che chiediamo è solo del buon cinema e quando arriva dagli ultimi della fila, spiantati ed insospettabili, allora al reale valore si aggiunge anche dell’altro: la partigianeria nei riguardi di chi lotta nelle retrovie.

Nota a margine che scrivo in piccolo vista la sua inconsistenza. A titolo informativo riporto che quando il ragazzo inizia a vagare nel bosco tutto ad un tratto si trova al centro di una scena paragonabile al rito degli arbusti antropomorfi in Alberi (2013) di Michelangelo Frammartino.

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