Come recita la copertina del dvd “l’ultimo straordinario film di Lucio Fulci”. Forse non così straordinario ma incontrovertibilmente l’ultimo, purtroppo.
Per gli strani arabeschi del destino il film figura come un epitaffio del regista, una specie di iscrizione funebre che cerca di superare la morte illudendosi la vita, ma che dovrà arrendersi di fronte al grande mistero questa volta impresso su una targa: D.E.A.T.H.
Il Fulci crepuscolare abbandona splatter e violenza sobbarcandosi l’onere di scrivere il soggetto e la sceneggiatura, creando un film profondo, non so se più bello o più brutto ai suoi precedenti, sicuramente diverso. Paradossalmente però la pellicola, prodotta da Joe D'Amato, è rimasta nell’oblio per molti anni a causa di una distribuzione scellerata.
C’è un incidente stradale, un’orologio segna le sette e trenta.
Il protagonista della storia è Melvin Deveraux (John Savage, Il cacciatore, 1978), un uomo di affari che dopo aver visitato la tomba del padre si mette in viaggio per tornare a casa. Lungo il tragitto incontra un carro funebre che gli sbarra la strada, inizia così un lungo inseguimento inframezzato dalla misteriosa presenza di una donna che dice di volere Melvin.
C’è un incidente stradale, un orologio segna le sette e trenta.
“…quando varcherai le porte del nulla, nessuno ti sarà vicino: solo l’ombra della tua morte…”
Così dice Giovanni nel IV libro de l’Apocalisse e così si conclude il film. L’ultimo istante di vita di Melvin si dilata in un’ora e mezza dove l’uomo rincorre senza riuscirci un carro funebre che porta il suo feretro. E quindi la struttura circolare su cui poggia l’intera vicenda è una riflessione davvero profonda sulla morte e sulla vita, ironica e onirica allo stesso tempo. Tempo che si cristallizza nelle lancette, ma non per Melvin che continua ad inseguire ossessivamente quel carro per dimostrare a se stesso che è vivo, mentre quel carro altro non è che la sua morte.
Molto bello, molto poetico. Ma anche un po’ fiacco, difettando in coinvolgimento, forse saranno quelle lunghe riprese di Savage che macina chilometri su chilometri, e derivativo nella struttura, forse sarà quell’inseguimento che ricorda molto Duel (1971). Anche la fotografia è il risultato di immagini un po’ dozzinali senza grossi acuti né scene memorabili, e pure la trama appare piuttosto prevedibile, ma forse questo era voluto…
Come si direbbe di una donnina in vetrina ad Amsterdam: si lascia guardare, pur con qualche riserva.
Il Fulci crepuscolare abbandona splatter e violenza sobbarcandosi l’onere di scrivere il soggetto e la sceneggiatura, creando un film profondo, non so se più bello o più brutto ai suoi precedenti, sicuramente diverso. Paradossalmente però la pellicola, prodotta da Joe D'Amato, è rimasta nell’oblio per molti anni a causa di una distribuzione scellerata.
C’è un incidente stradale, un’orologio segna le sette e trenta.
Il protagonista della storia è Melvin Deveraux (John Savage, Il cacciatore, 1978), un uomo di affari che dopo aver visitato la tomba del padre si mette in viaggio per tornare a casa. Lungo il tragitto incontra un carro funebre che gli sbarra la strada, inizia così un lungo inseguimento inframezzato dalla misteriosa presenza di una donna che dice di volere Melvin.
C’è un incidente stradale, un orologio segna le sette e trenta.
“…quando varcherai le porte del nulla, nessuno ti sarà vicino: solo l’ombra della tua morte…”
Così dice Giovanni nel IV libro de l’Apocalisse e così si conclude il film. L’ultimo istante di vita di Melvin si dilata in un’ora e mezza dove l’uomo rincorre senza riuscirci un carro funebre che porta il suo feretro. E quindi la struttura circolare su cui poggia l’intera vicenda è una riflessione davvero profonda sulla morte e sulla vita, ironica e onirica allo stesso tempo. Tempo che si cristallizza nelle lancette, ma non per Melvin che continua ad inseguire ossessivamente quel carro per dimostrare a se stesso che è vivo, mentre quel carro altro non è che la sua morte.
Molto bello, molto poetico. Ma anche un po’ fiacco, difettando in coinvolgimento, forse saranno quelle lunghe riprese di Savage che macina chilometri su chilometri, e derivativo nella struttura, forse sarà quell’inseguimento che ricorda molto Duel (1971). Anche la fotografia è il risultato di immagini un po’ dozzinali senza grossi acuti né scene memorabili, e pure la trama appare piuttosto prevedibile, ma forse questo era voluto…
Come si direbbe di una donnina in vetrina ad Amsterdam: si lascia guardare, pur con qualche riserva.
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