venerdì 4 settembre 2020

Rosso

Non da Historia del Mal (2011) e nemmeno da El Movimiento (2015), per il suo terzo lungometraggio Benjamín Naishtat riprende da distante il discorso che aveva iniziato con History of Fear (2014), anche Rojo (2018), infatti, guarda ad una precisa classe sociale che rimane sempre quell’agiata borghesia divisa tra il lavoro, le cene di gala e le partite a tennis, ed è chiaro che il ritratto che se ne dà nasconde degli interessanti lati oscuri che Naishtat mostra nell’incipit, un gran pezzo di cinema, teso, potente, ottimamente recitato, dove succede questo: uno stimato avvocato di nome Claudio invece di soccorrere un suicida con il quale aveva avuto un violento alterco al ristorante, decide di portare nel deserto l’uomo agonizzante per lasciarlo morire. La grossa differenza è la cornice storica fornita dal regista, non la nostra epoca ma l’Argentina degli anni ’70, è un dato fondamentale perché amplia la lettura del comportamento di Claudio fino a trasformarlo in una grande allegoria che suggerisce l’assenza di rettitudine da parte di un professionista, di una persona, e quindi di un intero ceto, che dovrebbe dare il cosiddetto buon esempio. Ma allegoria perché? È intuibile che, essendo il Colpo di Stato in procinto di accadere (e il tizio nella platea lo bisbiglia più a noi che al protagonista), il legale sia solo un esempio del tessuto fragile, corruttibile (si veda il losco affare dell’abitazione proposto dall’amico) che di lì a poco non riuscirà ad arginare un Olocausto imponderabile. “L’importante è sapere che stiamo combattendo un male maggiore. Comprendi la natura del nostro nemico? Tu ti immagini un posto senza legge e senza Dio?” nelle parole dell’investigatore c’è una sintesi semantica del film nonché un vaticinio per ciò che si verificherà al di fuori dal film, nella Storia.

Certo che Rosso è un’opera strana, ma del resto Naishtat non è uno che finora ha mai amato farsi catalogare, la ricostruzione storica è notevole e sembra che non solo vi sia aderenza all’ambiente ma anche al cinema di quegli anni (ci sono due o tre zoom in avanti che si potevano vedere solo nei “nostri” gialli italiani), la maggioranza delle sequenze è piuttosto classicheggiante con normali campi-controcampi nelle scene di dialogo e l’impianto thriller, se così può essere definito, è lineare e senza arzigogoli (palesemente lineare, facile capire che Claudio ha commesso un sacco di errori la sera con l’hippie e che verrà beccato, e la facile risoluzione è dovuta al fatto che non è sicuramente importante ai fini della comprensione del film l’indagine sul suo conto), eppure persiste un mood particolare nel girato, serpeggia un’energia strisciante sebbene Rojo si abbandoni a piccole digressioni un po’ di comodo dove la metafora non è per niente celata, mi riferisco a quando sparisce un coetaneo della figlia (le modalità di questa sparizione sono forzate e mal inserite con la traccia narrativa portante, al fidanzatino, prima, vengono giusto dedicati due minuti), oppure al breve segmento di cabaret col mago (di nuovo un’allusione ai desaparecidos), o, infine, all’eclissi solare sulla spiaggia (più esplicito di così non si può: l’Argentina si tinge di rosso, si tinge di sangue). Ma va bene comunque, anzi va più che bene, l’essenza sbilenca è il salvagente autoriale che ci impedisce di spaccare il capello in quattro o di essere ottusamente razionali, è una pellicola d’alta fattura, polimorfa (l’introduzione del detective cileno fa prendere addirittura una direzione simil-comica), che non esaurisce il suo senso ad una visione di superficie, che racconta in modo obliquo, antiletterale (pur avvalendosi di elementi che a volte sono in conflitto con tale direzione) una pagina nerissima dell’Argentina, nonché dell’umanità tutta.

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