domenica 20 settembre 2020

Red Luck

Folle è folle questo Red Luck (2014), ma davvero tanto, e la vena di pazzia che lo pervade non può che essere motivo di attrazione, anche se, lo si specifica subito, l’enciclopedia da dove attinge il regista americano Mike Olenick è quella dell’exploitation anni ’80 e derivati, per cui se avete già raggiunto il livello di saturazione con gli innumerevoli remake/imitazioni dei periodi recenti allora posate pure lo sguardo altrove, sappiate perlomeno che il tributo, evidente (soprattutto verso Cannibal Holocaust [1980] con poster sul muro e ripresa del tema musicale, a proposito: quanto era discordante la composizione di Riz Ortolani dalle immagini del film?), è miscelato da un assetto che rasenta la psichedelia e che ha l’invidiabile capacità di apparire al contempo sia moderno (forse perché ciò che non si capisce appieno seduce e quindi si avverte più prossimo a noi) che vetusto (in fin dei conti la veste sperimentale è più che altro una confezione che fa da foglia di fico ad un frammento narrativo a dir poco esiguo), quindi divisi un po’ tra due estremi di tal fatta subiamo (ma non prendetela come una cosa troppo negativa) gli assalti visivi di Olenick il quale si preoccupa di mettere in scena le gesta di un nostalgico serial-killer (i dettagli sono gustosi: Ray-Ban, vinili, baffi alla Tom Selleck) contrastato da un bislacco supereroe che ha trovato il suo ragno radioattivo in un sbrilluccicante quadrifoglio rosso.

Ok, letta così la questione parrebbe tangere la dimensione del trash e in effetti non si va tanto lontano, il salvagente che mantiene a galla Olenick è fornito da un elemento che differenzia sempre i prodotti di serie B del passato dagli omaggi del presente: la consapevolezza, qui non si gira per scioccare ma per citare un cinema che voleva scioccare e che ora rimane al massimo un simpatico reperto archeo-cinematografico. Poi senza dubbio Olenick ci va giù pesante con gli accorgimenti tecnici e qualcosa riesce a smuovere, ad esempio la sconnessione temporale vivacizza e interroga (sembra ci siano due vittime ma non è per nulla chiara la progressione degli eventi), così come l’impianto visivo che avvalendosi di costanti zoom e triplopie allucinate si sa distinguere, e non di poco, dalla massa. Certo è che Red Luck non è un corto “bello” nel senso aggraziante del termine, non lo è perché è principalmente settato per respingere lo spettatore (dimenticavo: le frequenze utilizzate simili ad acuti ronzii sono al limite del fastidio, cosa suppongo desiderata e ottenuta), involuto in se stesso, nel suo mondo, nei suoi (bassi) riferimenti artistici, tuttavia, per quanto possa valere, ha spinto chi scrive ad una duplice visione, l’una a distanza di qualche giorno dall’altra, e pur non certificandone l’assoluta bontà dell’operazione qualche pensiero, almeno a me, l’ha evidentemente stimolato.

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