domenica 6 settembre 2020

Tren de sombras

Mai banale, José Luis Guerín per Tren de sombras (1997) recupera dei vecchi filmati girati sul finire degli anni ’20 in Normandia da un avvocato con la passione per la fotografia, tal Gérard Fleury il quale morirà in circostanze poco chiare l’8 novembre del 1930 dopo essersi allontanato da casa con la propria cinepresa, ma non è questo il punto, o almeno non lo è inizialmente, il lavoro compiuto da Guerín si distacca dal ricostruire la storia di questo abbiente signore, il regista catalano evita di concentrarsi sul particolare della famiglia Fleury di cui in effetti non avremo altre informazioni che non siano quelle estrapolabili dalle immagini in bianco e nero, il suo film ha mire concettuali più alte, decisamente più alte, certo i footage ritrovati (vediamo delle pizze come se fossero reperti archeologici) che mostrano una vita borghese tra le due guerre è il punto di partenza, ma l’obiettivo è operare sulla materia prima, restaurare, rielaborare, tagliare e incollare, sovrapporre, affiancare, ricreare, in tal senso Tren de sombras è il laboratorio di uno stregone che sfrutta le qualità insite della settima arte per riflettere sul tempo, sui piani temporali che magicamente possono anche coesistere nello spazio di un film, di una sequenza o addirittura di un frame, c’è, qui, una dimensione altra, che non ha più né un prima né un dopo, che evoca dei fantasmi e un secondo dopo li incarna sulla scena, che incamera luoghi novecenteschi mettendoli allo specchio del presente, ma un presente che contiene in grembo tutto il resto, una specie di crocevia in cui sfrecciano esistenze e ricordi, forme e contenuti. No, sicuramente Guerín non è un autore banale.

In Tren de sombras si possono individuare tre parti diverse che si siedono allo stesso tavolo per instaurare un dialogo proficuo: la prima non è altro che la messa in serie delle registrazioni video effettuate da Fleury, l’unico intervento di Guerín che si riscontra è relativo al comparto sonoro che accompagna i filmini domestici (ci saranno delle micro scorie da cinema muto reperibili anche nel successivo Guest, 2010), dopodiché assistiamo ad uno scarto, ad una collisione: ecco gli stessi luoghi, la stessa abitazione, ma settant’anni dopo, dal film d’archivio al documentario puro: riprese esterne, cittadine, paesaggistiche, interne, dettagli della magione, siamo in un “adesso”, ma solo fino a quando sulla parete della camera non sfarfallano altre immagini, di colpo si ritorna ad un “prima” che, come il cinema, è un’illusione, in realtà entriamo dentro la bottega dell’alchimista, presenziamo al processo filmico: è una dissezione in piena regola, la pellicola, intesa nella sua composizione chimica, si mostra in ogni suo fotogramma, uno dopo l’altro, uno prima dell’altro, e Guerín torna e ritorna, letteralmente: avanti e indietro a colpi di click, in quel mare antico dove lo sguardo di una ragazza sull’altalena è come quello di una sirena, avanti e indietro: la manipolazione del tempo, che arriva a non esistere più con la sua falsificazione: degli attori impersonano “oggi” l’avvocato e i suoi famigliari, è il cortocircuito conclusivo di un film che, seppur non lunghissimo, contiene una ricchezza rara che lo fa essere sia un tributo al cinema d’antan, sia uno studio di ricerca sulle qualità del cinema moderno, come si sente odiosamente dire in giro: tanta roba!

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