lunedì 28 settembre 2020

Dawson City: Il tempo tra i ghiacci

Non lo avrei fatto iniziare così Dawson City (2016), personalmente avrei evitato l’introduzione posticcia con Bill Morrison in uno studio televisivo e la rapida lezione di storia del cinema susseguente, un preambolo del genere è il superfluo condimento ad una portata che non ha bisogno di ulteriori farciture, dettagli su cui si può anche soprassedere si dirà, benissimo, e allora dritti verso il piatto principale che è, e penso ne convengano tutti, una bella vicenda dei nostri tempi, e questi tutti, almeno chi ne ha scritto in Rete, non si è minimamente risparmiato in fatto di larghi complimenti nei confronti di Morrison che da moderno menestrello ci ha cantato una fiaba dal lieto fine o simil tale e, a cascata, via di riflessioni filosofiche sul Tempo, sul Cinema, sull’influenza del primo sul secondo eccetera eccetera, di nuovo benissimo perché è incontrovertibilmente vero ciò che ho appena detto, siffatte premesse portano, come intuirete, ad un però: perché il sottoscritto pur provando interesse nei riguardi di Dawson City non ne è stato totalmente conquistato? Ci ragiono un po’ su: la spina dorsale del documentario è il ripasso storico che compie, gradevole ed istruttivo, l’itinerario proposto parte dal Big Bang originario che potremmo indicare in una pagliuzza d’oro che scorre nell’acqua di qualche gelido torrentello canadese e arriva, attraverso una cavalcata in cui tra stravolgimenti urbani (quanti incendi e quante ricostruzioni ci sono?) e riferimenti extra (ma il baseball come si lega ai fatti del Klondike?) forse ci si smarrisce un filo, alla fine, che in realtà è un nuovo inizio, almeno per coloro i quali hanno a cuore la settima arte. Intervista al dissoterratore delle bobine, alla direttrice di un Museo, spiegazioni sul restauro delle bobine, the end.

Ecco: adesso ho più o meno a fuoco che cosa è che mi ha tenuto lontano dal film: è troppo illustrativo. Può apparire una frase fatta, buttata lì, ma permettetemi di sottolineare che io invece ci credo realmente perché il potenziale dell’opera sarebbe enorme in quanto le categorie affrontate sfiorano sia l’universale che la poesia, eppure non si oltrepassa mai il corredo visivo, mai al di là delle immagini di repertorio. La strutturazione fornita da Morrison essendo cronologicamente sequenziale tallona gli eventi storici snocciolando informazioni su informazioni adibite a notificare allo spettatore il quadro sociale-culturale dell’epoca e i motivi per cui centinaia di film muti sono arrivati lì per non tornare più indietro, ’sta volta dico benino perché sebbene venga stuzzicata l’attenzione è anche vero che la confezione offerta si avvolge di un vestito didattico, quasi scolastico, ed è un peccato perché non essendo noi nuovi a filmati di archivio che se riuniti sanno dare vita ad un diverso unicum, conosciamo perfettamente la plasmabilità del cinema e la distintiva qualità di mixare registri, approcci, frammenti e scarti per creare un potente flusso capace di sondare le profondità delle memorie degli altri che per un sciamanico processo osmotico diventano le nostre memorie, le mie. Scusate il gratuito slancio onirico, è solo per argomentare l’assenza di percezioni simili in Dawson City. Comunque, per rendere a Morrison i giusti riconoscimenti non si immagina nemmeno la quantità di ore impiegata nel visionare gli antichi rulli ed il taglia & cuci necessario per la messa in serie, una connessione di stralci che esemplifica le didascalie in sovrimpressione (esempio: la narrazione dice che passano degli anni e sullo schermo vediamo una sequela di persone che dormono prese proprio dai film ritrovati. Altri esempi a iosa), ancora una volta: benino, di un bene che mi tiene le suole piantate a terra.

Molto suggestive, ma davvero molto, le musiche dello statunitense Alex Somers, un composto oscillante tra ambient e modern classical che ascolterei anche senza le immagini, il che ritengo sia un’ottima cosa per una “colonna sonora”. Vado a vedere chi sia questo Somers e Wikipedia mi dice essere il compagno di Jónsi dei Sigur Rós, si capisce perché il ragazzo non difetta certo in intensità ed eleganza.

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