sabato 12 settembre 2020

An Elephant Sitting Still

Voglio che tu sappia che la nostra quotidianità è rimasta la stessa fin dall’antichità. Non devi sentirti confusa. L’umanità non cambierà con l’avanzare del tempo. La vita... non migliorerà mai. È tutta una questione di agonia... di agonia. Questa agonia ha avuto origine nel momento in cui sei nata. Credi che andare in un altro posto potrà cambiare il tuo destino? È una stronzata. Nuovo luogo, nuove sofferenze. Hai capito? Nessuno sa cosa sia davvero l’esistenza.

È inutile trovare qualche collegamento con Man in the Well (2016) perché quello era un cortometraggio come tanti se ne trovano nei Festival mentre Da xiang xi di er zuo (2018) è uno di quei film che esce una volta ogni dieci anni, o forse anche di più. Non volevo anche io scadere nel mero necrologio come praticamente tutte le altre recensioni in giro hanno fatto, però è difficile non associare il dramma infinito e abissale che impregna l’opera con il suicidio di Bo Hu perché è evidente che quando i personaggi parlano (ad esempio il corsivo qua sopra proferito dal vice-preside) è lui a dar loro voce, al pari delle vicissitudini di questi ragazzi che, ci scommetterei, sono state anche le sue. Tentando di dissociare il torrenziale grido di dolore da chi tale grido l’ha partorito, abbiamo una pellicola che si rifà ad una grammatica visiva perseguita da autori del calibro di Cristi Puiu e Brillante Mendoza, è un cinema-verità che stalkerizza i soggetti in scena per mezzo di lunghi piano sequenza, ed è una scena che è la realtà, da qualche parte in una Cina tutta periferia e grigiore, dentro ai palazzoni popolari, ancora più dentro la vita di chi vive in alveari del genere dove le stelle sono sostituite dalle bruciature di fiammiferi scaraventati sul soffitto. Bo riprende ogni cosa facendo sì che la videocamera divenga una protesi della sua spalla, la materia che riprende è cruda e non cede a nessun impeto simbolico, se non quello che tutto ingloba, l’elefante che più che un animale è l’idea da raggiungere, la salvezza, la speranza.

Il telaio narrativo incrocia quattro fili che si sviluppano intrecciandosi, la portata delle storie raccontate è un susseguirsi di tragedie dove abbiamo ben due ragazzi che si ammazzano, un cane ucciso da un suo simile, una nonna morta in solitudine e in generale l’impressione che possa succedere qualcosa di brutto ad ogni minuto che passa, forse l’imbottire il film di così tante situazioni funeree racchiuse nell’arco di una giornata fa un po’ emergere dei tratti finzionali non in linea con l’impianto globale, ma a Bo glielo si perdona anche perché a fare da contraltare c’è uno studio socio-antropologico che sortisce un realismo pazzesco, alla base sembra che, per ognuno dei soggetti coinvolti, ci siano enormi problemi a livello famigliare. È la generazione tra i quaranta/cinquanta anni ad essere in crisi con i rispettivi figli o genitori, qui sì che il dramma conflittuale è davvero potente (a mio avviso più di un tizio che si getta dalla finestra) perché ci dice molto sulla Cina d’oggi e ce lo dice bene, cioè con angoscia verso un mondo che anche al di là delle mure domestiche non promette niente di buono per il futuro dei giovani (la scuola che andrà a chiudersi) e degli anziani (il momento più bello, per chi scrive, è la visita nella casa di riposo, una “passeggiata” in cui le nere pareti divisorie fanno da rintocchi funebri). La portata di An Elephant Sitting Still è concentrata nel deterioramento dei rapporti umani (il fratello morto, comunque, “era uno stronzo”), nell’abbandono totale ad un presente in balia della violenza e ad un futuro quantomeno ignoto.

Di un titolo così generoso, così pieno di rabbia e delusione, si può anche soprassedere ad una ragnatela tramica che ogni tanto cede a qualche forzatura, cito solo: l’incontro casuale tra Wei Bu con la stecca da biliardo ed il vecchio e l’eguale casualità dei bagarini fuori dalla stazione che incrociano sempre Wei Bu. Se pensiamo che Bo Hu, tra l’altro autore anche del romanzo da cui Da xiang xi di er zuo è tratto, si è messo dietro alla mdp neanche trentenne, poco o niente viene da rimarcare al cospetto di una macchina fatta di ingranaggi espositivi che potrebbero appartenere al più scafato dei registi. Il fatto che si parli di un’opera prima che è anche l’ultima sicuramente ha influito sul nostro modo di vederla, c’è un coinvolgimento emotivo che, anche provando un distacco come auspicavo all’inizio, non arretra di un centimetro, non so cosa sia, se scoramento, tristezza o compassione, è comunque il risultato di un segno che Bo ha lasciato in modo indelebile nel cinema e al di fuori di esso e che ha in quel barrito conclusivo uneco la cui onda si propagherà lontana nel tempo e nello spazio.

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