Problema: il
cinema di Charlie Kaufman è cinema di scrittura, ma che succede se
da anni, al sottoscritto, non interessa più molto dell’inchiostro
che dà essenza ad un film? Succede che si genera un disinteresse, un
prendere le distanze da prodotti che, generalizzando, sono privi di
specificità. Ma Kaufman è un’eccezione
perché la sua penna è sempre di livello e perché lui è
oggettivamente molto bravo a far fluire tutta una drammaturgia
personale, colta, profonda, esagero? Ma sì: disperata, nelle
performance attoriali degli interpreti ingaggiati per l’occasione.
In tal senso I’m Thinking of Ending Things
(2020) più che vederlo, lo si legge,
ok è un’altra esagerazione, però, se non siete dei madrelingua
anglofili e avrete bisogno dei sottotitoli, difficilmente riuscirete a
staccare gli occhi dalle fitte linee di dialogo che scorrono a fondo
schermo, soprattutto nei due atti in automobile che anticipano gli
importanti segmenti nella casa dei suoceri e nell’istituto
scolastico. Qui Kaufman attraverso le conversazioni della coppia
immette nel ricircolo verbale una gran quantità di citazioni,
rimandi e riflessioni che spaziano dalla poesia al cinema passando
per la letteratura [1], e perché, vi chiederete, questo fiorire
argomentativo va sottolineato? Semplice: perché è inusuale, perché
la cultura non è mai in eccesso, perché la maggioranza dell’offerta
cinematografica odierna, quella pensata per un ampio bacino d’utenza
(del resto Sto pensando... è
nella stia di chioccia-Netflix, ed anche se non è Stranger
Things ha una platea
potenzialmente sterminata), non ha uno spessore intellettuale come
quello fornito dal regista newyorkese. Quindi: pur
scansando una settima arte poggiata solo sulla sceneggiatura, va
riconosciuta la qualità del lavoro di Mr. K che, e ne sono sicuro
pur senza aver letto il libro da cui il film è tratto, suggella
un’Identità, merce rara nei circuiti semi o totalmente
commerciali.
Che
poi: meglio andarci cauti, non vorrei passasse l’idea che I’m
Thinking... sia un un’operetta
di trama-copia-carbone con premessa, svolgimento e conclusione. Ehm
no, siamo ben lontani da una schematicità del genere, mentre siamo
vicini, decisamente, all’usus scribendi
dell’autore. Non abbiamo tante pietre di paragone nell’area
regia, escludendo il minore Anomalisa
(2015), ne rimane una: Synecdoche, New York
(2008), che però vale mille. Le assonanze con il precedente
lungometraggio sono evidenti, ed è un dato che si conclama nella
strutturazione dei ruoli nella storia e che provoca stordimento. In
pratica: nessuno è chi sembra essere, anzi: nessuno è,
ad esclusione di una persona. Nuovamente, sebbene in maniera meno
meta, Kaufman si trasporta all’interno della diegesi vestendo ’sta
volta i panni di un bidello, è lui il deus ex machina che costruisce
un mondo introspettivo, un crocevia di sogni, possibilità e
destini percorsi o impercorribili. Il bidello come Caden Cotard, come
regista con i suoi attori, come proiettore di un sé frammentato in
altri sé. E dire che all’inizio pareva la “normale”
radiografia di un rapporto amoroso vicino al triplice fischio finale,
il depistaggio funziona ed è foriero di ulteriore turbamento, quando
intuiamo che il discorso è più esistenziale che sentimentale e che
il filtro narrativo non fa passare banali impurità, allora sì, è
il momento di misurarci con la statura dell’opera.
Dei tre film diretti (e ci metto dentro anche quelli scritti per
altri), I’m Thinking... mi è parso maggiormente cupo,
sigillato in una bolla di continuo cordoglio. Probabilmente a
suscitare sensazioni del genere ci ha pensato un allestimento scenico
occludente, il nevoso tragitto in macchina (a proposito: non vi
sembra che il mezzo sia fermo e che, simbolicamente, i due non stiano
andando da nessuna parte?) e l’abitazione dei genitori con le
soffocanti tappezzerie, succhiano via l’ossigeno spettatoriale. Ma
spendiamo qualche parola sulla porzione casalinga: è lì che si
compie la decisiva accelerazione verso lidi d’ardua determinazione,
la compresenza di un multi-tempo e un multi-spazio mi ha rimembrato
Madre! (2017) di Aronofsky, c’è un’eguale spinta verso il
razionalmente impraticabile, un simile calembour visivo che
scoppietta ad ogni porta che si apre. Si sfiora il perturbante
(smantellate tutto l’apparato teorico e rimane una tizia, sola, in
una fattoria isolata dalla tormenta abitata da gente parecchio
strana, praticamente un horror dal titolo che volete, tipo: “La
casa nel...”), l’inquietudine lynchiana (la sosta in gelateria), per virare nell’assurdo (il maiale-fantasma... animato)
e atterrare nella rappresentazione teatrale, duplice: il balletto
coreografico + la posticcia cerimonia di un premio Nobel. Perciò:
non glielo vuoi dire a Kaufman che Sto pensando di finirla qui
è un oggetto largamente esplorabile e, per riflesso, largamente
esplorante? Io sì, glielo dico con grande piacere.
_______________________ [1] Viene nominata la raccolta di saggi Una cosa divertente che non farò mai più uscita per la prima volta negli USA l’1 febbrario ’97. Ciò mi fornisce un bell’assist per ricordarvi che Einaudi pubblicherà Antkind, il primo romanzo di Kaufman. I siti italiani riportando la notizia hanno tutti copiato e incollato le parole di Matthew Specktor che sul New York Times recensendo il libro ha tirato in ballo Wallace e Pynchon. Io non ci credo, ma un po’ ci spero.
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