Mio padre morì il giorno in cui persi la verginità. Mentre rientravo a casa con le mani che ancora sapevano di Rossella, avrei potuto spaccare il mondo intero, da un emisfero all’altro. Quando vidi mia madre piangere piegata sul tavolo, il mio mondo si fece piccolo come una biglia di mercurio. Inafferrabile e luccicante, velenosa e tagliente.C’era odore di morte nella camera da letto, una puzza dolciastra che trasudava dalle coperte e s’infilava su per le narici, smuovendo il cervello con la forza di un terremoto: ricordandomi che io ero vivo, mentre mio padre era morto.
Rossella.
Provai un’ irrefrenabile voglia di sentirla anche se era passata solo un’ora, avevo il disperato bisogno di aggrapparmi a qualcuno, con le mani, con le unghie. Lasciai mia madre avvinghiata al cadavere che copriva di lacrime e di baci, e poi ancora di baci e di lacrime, fino a soffocarlo, se solo avesse respirato.
L’autobus era pieno. Con la testa appoggiata al finestrino pensavo a quando andavamo al laghetto; io non volevo fare il bagno perché l’acqua era fredda, allora restavamo sul ponte di legno e papà mi raccontava storie così belle che io ci credevo davvero… come quella volta che disse di aver conosciuto un gigante senza una scarpa. “Qualcuno ha mica visto la mia scarpa ? È grande quanto una casa! Non dovrebbe passare inosservata!”.
Poi un giorno mi regalò una fionda invisibile: “Quando sei arrabbiato tira una pietra, sarà come lanciare via il peso che hai dentro.” Dove l’ho messa quella fionda? Cristo santo. Non sentirò più la tua voce, e le tue mani non potranno accarezzarmi prima di dormire, non ti vedrò più soffrire per una partita di calcio, non ci sarai più seduto a tavola, non potrai regalarmi più niente. Sarà l’annullamento, la negazione, la disperazione ed il dolore che mi seguiranno come ombre anche nel buio.
Tenebre.
Non vedevo le strade oltre il finestrino del bus, ma solo un buio infinito, un lago di petrolio denso come melma. Cazzo sono appena diventato un uomo e tu papà te ne sei andato, ho visto solo sedici inverni nella mia vita, troppo pochi per badare a me stesso, figurati alla mamma.
Il palazzo di Rossella si alzava tra gli alberi di un viale, rimasi ore a suonare il campanello, urlai raschiando la gola e piangendo sangue, urlai per tutto e per niente, per avere sedici anni ed essere orfano, per essere un uomo-bambino, gridai per te papà, per quel tumore che si aggrappava ai tuoi polmoni come la mamma stava facendo con te in quell’istante; l’amore e il dolore, la linea che li divide è carta velina impalpabile, è il pianto di chi non ha più lacrime, con le nocche sanguinanti credendo che un muro abbia le colpe. Così mi addormentai, rannicchiato sotto la finestra di Rossella. Solo. Io ero il mio mondo.
Non so dire per quanto tempo dormii, forse per giorni, forse per mesi, ma ad un tratto sentii sul mio viso un respiro caldo, davanti a me un naso enorme in mezzo a due occhi così azzurri e immensi che non basterebbe il mare per descriverli. “Hai mica visto la mia scarpa ragazzo? È grande più o meno così!” Da una mano all’altra passavano due tir, le dita erano tronchi, le unghie tavole d’avorio lucente.
“N-no… ma tu sei… tu sei il gigante?”
“Che diamine ragazzo! Ti sembro un nano? Aiutami a cercare la mia scarpa!”
“Non so dove sia mi dispiace, però avrei una domanda ...”
“Ok, basta che tu non mi chieda se io sia anche gentile oltre che grande e gigante...”
“No… per caso hai una fionda invisibile?”
“Ma certo!Eccola!” Come uno spillo tra le sue dita il gigante mi porse la fionda, quando -non- la vidi tra le mie mani capii cosa dovevo fare. Un masso ciclopico, nero, una valanga d’odio e disperazione da lanciare. Adesso potevo davvero spaccarlo il mondo, annientarlo con la mia fionda, ridurlo un cumulo di polvere. Tirai le cordicelle di gomma tendendole fino allo spasimo, sfidando la fisica e la mia rabbia: “Che un terremoto faccia crollare questo schifo, che un incendio distrugga tutto e bruci fino a diventare cenere, e che le acque si sollevino e sommergano questa fogna infestata dai topi, che sia la fine, la fine del mondo. Per sempre.”
Quando mollai le cordicelle mi svegliai, e una voce riattivò quel che rimaneva del mio cuore: “Che cazzo ci fai qui?”
Rossella… Dio quanto la amavo in quel momento, più del cielo, delle nuvole, dell’aria, della pioggia, del sole, più di ogni altra cosa. Anche di me stesso: “Ciao...”
“Embè? Mi dici per quale motivo stai dormendo sotto la mia finestra?”
“Io… io… avevo voglia di vederti…”
“Potevi aspettare domani, abbiamo tutto il tempo del mondo!”
“Forse hai ragione… posso entrare?”
“Ma ci sono i miei!”
“Allora esci tu”
“E dove andiamo?”
“A vivere.”






Purtroppo tutto il resto non gira a dovere.
Interessante la figura di Hizuru, la fidanzata. Ma direi interessante l’atteggiamento che ha il regista nei confronti del mondo femminile. E sì perché in tutti i film visti finora le “sue” donne non è che ne escono granché bene. Prendete quella del primo 


Lo so, non vi dice nulla, ma quella breve sequenza in cui la signora Drusse cerca di stabilire un contatto con lo spirito tramite la donna in fin di vita, mi ha colpito molto perché è una scena dinamica anche se ambientata in una piccola stanza. E quindi ho deciso, finalmente, da dove inizierò: dal movimento.
Ma come detto, ‘sta volta il regista danese s’impegna di brutto anche nella sceneggiatura, e di questo si è tutti un po’ più felici. Che poi, pensando all’assunto su cui si muove il film, ci si rende conto di come non sia granché originale la storia di una bambina uccisa nel passato il cui spirito infesta un ospedale di Copenhagen, praticamente la trama di mille altre ghost-story. Ma a differenza di quest’ultime, Von Trier fa una cosa molto intelligente: usa l’ironia. Guccini la definirebbe tragica, perché in effetti si ride amaramente di questi dottori che in fondo sono dei miserabili, parafrasando Pratolini mi verrebbe da dire “cronache di poveri dottori”. E forse la vera forza di The Kingdom, e un po’ di tutte le serie ambientate negli ospedali, è quella di poter sbirciare le relazioni che i vari personaggi intessono, capendo così che sotto il camice ci sono personalità opposte all’austera professione che svolgono..png)

Già nel confuso 

E allora succede che in pratica è come se vedessi L’orinatoio di Duchamp. Non capisco, mi mancano le conoscenze, credo… spero. Io ci vedo solo un pisciatoio, non una delle opere più importante del ‘900. Sì, devono mancarmi le competenze.

Da quanto si legge, dunque, la sindrome di Klinefelter è differente dall’ermafroditismo. Nel film, invece, sembra che dal punto di vista scientifico sia stata fatta un po’ di confusione, e per questo motivo alcune voci si sono levate contro la regista argentina, la quale si è difesa dicendo che il titolo è soltanto un manifesto, una metafora.

