Napoli. Delia, emigrata a Bologna per lavoro, torna nella città natale per indagare sulla misteriosa morte della madre Amalia annegata con addosso solo il reggiseno. Cercando di far luce sulla vicenda, Delia ricostruisce il fragile legame materno riannodando dei fili ormai persi nel passato.
A mano a mano che penetra nelle pieghe della memoria si identifica sempre più con sua madre fino a scoprire un’agghiacciante verità.
Voglio partire da una banalità: il dialetto napoletano. È difficile stare dietro a persone che parlano una lingua di cui non si conosce neanche una parola. Si può intuire qualcosa o anche di più, ma la comprensione limpida e totale diventa una chimera. E allora non si tratta proprio di una banalità perché non capire alcuni dialoghi, soprattutto quando si parla di terzi, non è granché positivo per l’opinione personale sul film, ed inoltre fa parecchio incazzare poiché neanche il tempo di ragionare su un’espressione oscura ecco che ne arriva un’altra e poi un’altra ancora.
Ma vabbè, lamentarsi del dialetto mi sembra piuttosto puerile nonché stupido. E quindi se proprio devo dire cosa non mi è garbata è un certo accartocciamento della storia nella fase centrale del film. Delia vaga in questa Napoli fradicia e rumorosa senza una meta, gira e rigira a vuoto, afflosciando la vicenda e chi guarda. Non che la suddetta parte centrale sia priva di senso o chissacché, però cattura così poco questa ricerca della verità che il finale seppur buono non ripaga pienamente l’attenzione impiegata nel seguire la protagonista.
Invece è molto ben fatto, a mio parere, il lato psicologico della pellicola.
Il fatto che Delia assuma pian piano le sembianze della madre è da intendere come il riappropriarsi della propria identità, di un sé che per anni era stato mascherato. Anzi, durante il film avevo come la sensazione che Delia stesse compiendo una sorta di esorcismo per liberarsi di un fantasma che aveva solo in apparenza le sembianze di sua madre, ma che nella sostanza celava il peggiore dei crimini possibili. Il senso di colpa per la violenza subita ha fatto sì che i ricordi di Delia bambina si alterassero, trasferendo Amalia, la mamma giovane, bella e desiderata, al suo posto. Tutto questo è reso bene grazie alla regia di Martone che dà un tocco noir al film, e alla compagnia degli attori, tutti con anni di teatro alle spalle, efficaci nella loro sanguigna spontaneità. Ben costruito il personaggio principale interpretato da Anna Bonaiuto, compagna del regista.
Il finale mi ha lasciato con un bel dubbio: Delia, rispondendo “Amalia” alla domanda di un ragazzo che chiedeva il suo nome, non ho capito se ormai fosse totalmente libera dal passato, oppure il contrario. Poco male, non è quello l’importante. L’importante è che dietro al finale ci sia una storia, e ne L’amore molesto c’è.
A mano a mano che penetra nelle pieghe della memoria si identifica sempre più con sua madre fino a scoprire un’agghiacciante verità.
Voglio partire da una banalità: il dialetto napoletano. È difficile stare dietro a persone che parlano una lingua di cui non si conosce neanche una parola. Si può intuire qualcosa o anche di più, ma la comprensione limpida e totale diventa una chimera. E allora non si tratta proprio di una banalità perché non capire alcuni dialoghi, soprattutto quando si parla di terzi, non è granché positivo per l’opinione personale sul film, ed inoltre fa parecchio incazzare poiché neanche il tempo di ragionare su un’espressione oscura ecco che ne arriva un’altra e poi un’altra ancora.
Ma vabbè, lamentarsi del dialetto mi sembra piuttosto puerile nonché stupido. E quindi se proprio devo dire cosa non mi è garbata è un certo accartocciamento della storia nella fase centrale del film. Delia vaga in questa Napoli fradicia e rumorosa senza una meta, gira e rigira a vuoto, afflosciando la vicenda e chi guarda. Non che la suddetta parte centrale sia priva di senso o chissacché, però cattura così poco questa ricerca della verità che il finale seppur buono non ripaga pienamente l’attenzione impiegata nel seguire la protagonista.
Invece è molto ben fatto, a mio parere, il lato psicologico della pellicola.
Il fatto che Delia assuma pian piano le sembianze della madre è da intendere come il riappropriarsi della propria identità, di un sé che per anni era stato mascherato. Anzi, durante il film avevo come la sensazione che Delia stesse compiendo una sorta di esorcismo per liberarsi di un fantasma che aveva solo in apparenza le sembianze di sua madre, ma che nella sostanza celava il peggiore dei crimini possibili. Il senso di colpa per la violenza subita ha fatto sì che i ricordi di Delia bambina si alterassero, trasferendo Amalia, la mamma giovane, bella e desiderata, al suo posto. Tutto questo è reso bene grazie alla regia di Martone che dà un tocco noir al film, e alla compagnia degli attori, tutti con anni di teatro alle spalle, efficaci nella loro sanguigna spontaneità. Ben costruito il personaggio principale interpretato da Anna Bonaiuto, compagna del regista.
Il finale mi ha lasciato con un bel dubbio: Delia, rispondendo “Amalia” alla domanda di un ragazzo che chiedeva il suo nome, non ho capito se ormai fosse totalmente libera dal passato, oppure il contrario. Poco male, non è quello l’importante. L’importante è che dietro al finale ci sia una storia, e ne L’amore molesto c’è.
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