Yorgos Zois si lancia
nella fantascienza, ma, a dispetto del titolo che richiama
esplicitamente Spielberg (e non solo il titolo visto che il
“contatto” tra uomo e... uomo avviene per mezzo di un motivetto
musicale: lo stesso di Incontri ravvicinati del terzo tipo
[1977]? Non lo so, lascio agli esperti l’onere della conferma), la
fantascienza di Zois è più tarkovskijana per via di una serie di
elementi che, usando tale aggettivazione, potrete facilmente
immaginare. Per cui Third Kind
(2018), scritto insieme alla brava Konstantina Kotzamani, si
interessa di umanità, o meglio di quel che ne rimane sulla Terra
dopo un esodo che ha costretto i suoi abitanti a migrare nello
spazio. Lo scenario è quello di un aeroporto abbandonato percorso da
tre astronauti che parlano tre lingue diverse, gli ambienti sono ampi
e Zois si premura di rendere i soggetti in scena ancora più piccoli
di quanto già sono, l’andamento è compassato, gli esploratori
incedono timorosi e al contempo affascinati dalle reliquie del
passato (“stranamente” c’è ancora dell’elettricità e una tv
su un tavolino, una volta accessa, trasmette così a caso immagini
appartenenti a quel luogo...), poi, d’un tratto, si delinea il
senso del cortometraggio, che è, in realtà, politico, attualissimo.
Sulla scorta del titolo appena precedente Εighth Continent
(2017), Zois si avvicina al
tema-migranti inquadrandolo in un contesto sci-fi e rovesciando un
po’ la situazione contemporanea, infatti qui sono gli occidentali,
se così possono essere definiti, che migrano verso
un altro posto, cambia la ragione dello spostamento dove non ci si
muove per migliorare la propria vita ma per provare a comprenderla.
Il
nocciolo del film è dunque questo e non pare al sottoscritto che ci
sia altro in cui poter accedere. Le modalità usate dal regista greco
per far sì che il sottotesto ci induca a ragionare su cosa vediamo,
sono, seppur dotate di encomiabile professionalità, abbastanza
ordinarie, si registra una fotografia giallognola sottilmente
tossica, da raggi solari per cui varrebbe la pena coprirsi un attimo,
e rimane qualche scelta che non dispiace, si veda l’inaspettata
filodiffusione del canto arabeggiante o l’allestimento della
tendopoli che ha un che di spettrale, è comunque tutto troppo
diretto, anche se celato dietro l’apparato futuristico, il discorso
così impostato si fa letterale, manca una vera apertura, manca la
piena capienza della visione, e quindi profondità, immersione,
sentimento. Però, per dare il giusto merito a Zois, poco prima della
fine abbiamo un bell’esempio delle potenzialità del cinema che può
replicare con inusitata efficacia dei ricordi personali senza bisogno
di didascalie, anzi, addirittura riducendosi a quadrato circondato
dal buio, mette in successione l’inferno di una tragica traversata
come tante, è una sequenza che crivella un lavoro altresì
manualistico, un’apprezzabile zampata che graffia la rigidità
della finzione. Finale scenografico e forse non necessario (non mi
stupirei se fosse stato pensato dalla Kotzamani), giudizio in bilico
e l’evidenza che a Zois, anche alla luce di Interruption
(2015), non frega granché di cavalcare l’onda ellenica, il che lo
prendo come un dato positivo.
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