martedì 14 aprile 2020

Third Kind

Yorgos Zois si lancia nella fantascienza, ma, a dispetto del titolo che richiama esplicitamente Spielberg (e non solo il titolo visto che il “contatto” tra uomo e... uomo avviene per mezzo di un motivetto musicale: lo stesso di Incontri ravvicinati del terzo tipo [1977]? Non lo so, lascio agli esperti l’onere della conferma), la fantascienza di Zois è più tarkovskijana per via di una serie di elementi che, usando tale aggettivazione, potrete facilmente immaginare. Per cui Third Kind (2018), scritto insieme alla brava Konstantina Kotzamani, si interessa di umanità, o meglio di quel che ne rimane sulla Terra dopo un esodo che ha costretto i suoi abitanti a migrare nello spazio. Lo scenario è quello di un aeroporto abbandonato percorso da tre astronauti che parlano tre lingue diverse, gli ambienti sono ampi e Zois si premura di rendere i soggetti in scena ancora più piccoli di quanto già sono, l’andamento è compassato, gli esploratori incedono timorosi e al contempo affascinati dalle reliquie del passato (“stranamente” c’è ancora dell’elettricità e una tv su un tavolino, una volta accessa, trasmette così a caso immagini appartenenti a quel luogo...), poi, d’un tratto, si delinea il senso del cortometraggio, che è, in realtà, politico, attualissimo. Sulla scorta del titolo appena precedente Εighth Continent (2017), Zois si avvicina al tema-migranti inquadrandolo in un contesto sci-fi e rovesciando un po’ la situazione contemporanea, infatti qui sono gli occidentali, se così possono essere definiti, che migrano verso un altro posto, cambia la ragione dello spostamento dove non ci si muove per migliorare la propria vita ma per provare a comprenderla.

Il nocciolo del film è dunque questo e non pare al sottoscritto che ci sia altro in cui poter accedere. Le modalità usate dal regista greco per far sì che il sottotesto ci induca a ragionare su cosa vediamo, sono, seppur dotate di encomiabile professionalità, abbastanza ordinarie, si registra una fotografia giallognola sottilmente tossica, da raggi solari per cui varrebbe la pena coprirsi un attimo, e rimane qualche scelta che non dispiace, si veda l’inaspettata filodiffusione del canto arabeggiante o l’allestimento della tendopoli che ha un che di spettrale, è comunque tutto troppo diretto, anche se celato dietro l’apparato futuristico, il discorso così impostato si fa letterale, manca una vera apertura, manca la piena capienza della visione, e quindi profondità, immersione, sentimento. Però, per dare il giusto merito a Zois, poco prima della fine abbiamo un bell’esempio delle potenzialità del cinema che può replicare con inusitata efficacia dei ricordi personali senza bisogno di didascalie, anzi, addirittura riducendosi a quadrato circondato dal buio, mette in successione l’inferno di una tragica traversata come tante, è una sequenza che crivella un lavoro altresì manualistico, un’apprezzabile zampata che graffia la rigidità della finzione. Finale scenografico e forse non necessario (non mi stupirei se fosse stato pensato dalla Kotzamani), giudizio in bilico e l’evidenza che a Zois, anche alla luce di Interruption (2015), non frega granché di cavalcare l’onda ellenica, il che lo prendo come un dato positivo.

Nessun commento:

Posta un commento