mercoledì 22 aprile 2020

History of Fear

Se ne parla malino un po’ ovunque di Historia del miedo (2014), però, il consiglio, è come sempre quello di non dare troppo ascolto agli altri, compreso il sottoscritto, ma di prestare attenzione a ciò che sentite voi, e, giusto per informazione di servizio, quanto segue è brevemente il mio personale punto di vista: sì, il film ha dei difetti, il principale è forse l’assenza di una concreta profondità semantica, percepibile ed in nuce, eppure priva di quell’ampio respiro che virtualmente avrebbe. Il materiale che Naishtat maneggia ha una temperatura alta come i misteriosi roghi che si alzano dal quartiere residenziale: critica ad un certo tipo di società, paralleli sulla situazione economica dell’Argentina, ritratti sardonici di alcuni status sociali (il “gioco” conclusivo durante la cena è un mettere a nudo i commensali proprio da tale angolazione), si sfiora tutto questo, lo si tange, si arriva alle soglie di un possibile ingresso fruitivo e poi ci si blocca, il rito non riesce a compiersi, perché? Approccio troppo estroso? Autorialismo sterile? Assenza di un filo conduttore davvero avvolgente? Tutto può essere al pari del suo contrario, limitiamoci ad elencare ancora una carenza di tipo concettuale: sebbene l’impianto dell’opera si presenti molto scombiccherato vi sono momenti che risultano fin troppo diretti, che si velano senza riuscire a scrollarsi di dosso la loro cifra esplicativa, è il caso della scelta di utilizzare i black-out come metafora di un affievolimento più grande e sconosciuto, in tale ottica il finale acutizza l’idea di un buio incombente e non si può negare che le cose funzionino anche, tuttavia si ha l’impressione che avrebbero potuto funzionare ancora meglio.

La visione de El Movimiento (2015) aveva trasmesso a chi scrive l’idea che Benjamín Naishtat fosse un regista intraprendente e per nulla coricato su quegli schemi che inaridiscono il cinema, il lungometraggio di debutto, depurato delle imperfezioni di cui sopra, non fa che confermare la suddetta statura, Naishtat affronta con discreta personalità la strada di un impietoso disegno contro la pigra borghesia, cita e raccoglie al di là dell’Atlantico (c’è Haneke alla fine) senza comunque infastidire o scadere nella blanda riproposizione, vieppiù che l’apparato estetico è punteggiato da soluzioni visive mica male, si prenda l’interessante incipit con la ripresa aerea o il sopraccitato ultimo pasto privo di luce, ma soprattutto, sebbene il film incameri minuto dopo minuto un progressivo scollamento pressoché insanabile, possiede un’onda silente che sa sbattere sulla superficie delle cose provocando effetti non così sottovalutabili. Prima mi chiedevo se era presente un trait d’union atto a fornire una significazione coagulante, diciamo che il titolo potrebbe darci una mano, sarebbe infatti la “paura” il fattore che connette i personaggi sullo schermo, i detrattori obietteranno che però l’allestimento raggiunge una sgangheratezza incapace di avere un ritorno, nemmeno se si certifica l’esistenza di frammenti che riescono ad instaurare un disagio, un malessere, una scomodità e via dicendo. Per quanto mi riguarda il baricentro sono proprio i frammenti: se proposti come Naishtat fa, ovvero inseriti in una cornice artistica di medio-alta fattura ed equipaggiati di un contenuto appetibile (fino a quando non si scivola nella didascalia), allora del spasmodico bisogno di un solido flusso aggregante ne faccio anche a meno, non sempre accade, ricordo ad esempio Free Fall (2014) di Pálfi la cui natura segmentata mi fu indigesta, ma quando accade sono contento di fare la conoscenza del Benjamín Naishtat di turno.

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