La prima
sensazione che vola via da Retour (2017), oggetto di una
delicatezza commovente, è che, parlando a titolo del tutto
personale, a volte succede di come il cinema sappia ancora dirci
qualcosa come se fosse la prima volta che lo vediamo, e ciò accade
nonostante il congegno che lo tiene in piedi non è nulla, ma davvero
nulla, che non sia già passato davanti ai nostri occhi (potremo
venire colpiti dalla più feroce delle amnesie ma quando un film di
montaggio è accompagnato da un parlato in francese l’aura di Chris
Marker si leva potente), eppure questo ragazzo classe ’88 di nome
Huang Pang-Chuan espone la propria intima storia arrivando dritto
dritto al nucleo che fonda un po’ tutto, e non solo nell’arte ma
anche e soprattutto nell’umano, arriva al cuore, ma con una carezza
che quasi non si sente, è un balsamo per l’anima, una vicenda di
pura dignità che si amalgama nel passato germinandosi da una
fotografia disastrata dal tempo che ritrae un tizio dai tratti
orientali vestito da lavoro, non è niente, è: l’inizio di un
mondo, di un’esistenza umile e sofferta che ha patito una guerra,
non si sa quale e poco importa, e quell’istantanea sbiadita,
scattata con l’idea di essere recapitata ai propri cari, rimane per
decenni nella giacenza del dimenticatoio, in una scatola qualunque, e
sarebbe rimasta lì se non fosse che un piccolo miracolo chiamato
cinema, prelevandola dalla polvere e donandole una nuova vita
impegnandosi a raccontare la sua, ha deciso di darle il tributo
sentimentale che meritava.
Ed è anche
un viaggio Retour, come se
non fosse altro, come se non ci fosse altro, viaggiare, attraverso
un’Europa che si converte in diapositive sfuggenti e sfocate, in
notti dove è meglio stringere a sé il bagaglio, e in suoni che un
tappeto musicale riverbera al quadrato in un babelico vociare di
idiomi incomprensibili, e poi in incontri, che non vediamo, perché,
che lo si sappia, non si vede granché, però si immagina perché un
viaggio è questo, è la libertà di avvicinarsi all’ignoto avendo
l’opportunità di riempirci la solitudine con la vicinanza di altri
che appena tocchiamo (la donna russa e la sua spiegazione
sull’instabilità dei convogli ferroviari), ma questo è un viaggio
che non riguarda un banale movimento spaziale, è ben di più, è un
nostos by train che
riallaccia un filo tranciato così tanti decenni fa che in mezzo c’è
stata una contro-migrazione verso la Francia e l’annessa
edificazione di un altro esistere, lontano da Taiwan, e quindi Huang,
regista del corto e regista di se stesso, e quindi lui, nipote
immigrato di seconda generazione, e quindi noi, spettatori con i
nostri nonni immortalati a loro volta in vecchie foto ingiallite, e
perciò tutti, ora e sempre impegnati in un viaggio che trascende i
chilometri e gli anni per arrivare, forse, ad una meta: “mi trovo
sulla spiaggia di Xiamen, la città più vicina a casa mia, e
dall’altra parte del mare, là, c’è la mia terra natale”.
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