domenica 26 aprile 2020

Retour

La prima sensazione che vola via da Retour (2017), oggetto di una delicatezza commovente, è che, parlando a titolo del tutto personale, a volte succede di come il cinema sappia ancora dirci qualcosa come se fosse la prima volta che lo vediamo, e ciò accade nonostante il congegno che lo tiene in piedi non è nulla, ma davvero nulla, che non sia già passato davanti ai nostri occhi (potremo venire colpiti dalla più feroce delle amnesie ma quando un film di montaggio è accompagnato da un parlato in francese l’aura di Chris Marker si leva potente), eppure questo ragazzo classe ’88 di nome Huang Pang-Chuan espone la propria intima storia arrivando dritto dritto al nucleo che fonda un po’ tutto, e non solo nell’arte ma anche e soprattutto nell’umano, arriva al cuore, ma con una carezza che quasi non si sente, è un balsamo per l’anima, una vicenda di pura dignità che si amalgama nel passato germinandosi da una fotografia disastrata dal tempo che ritrae un tizio dai tratti orientali vestito da lavoro, non è niente, è: l’inizio di un mondo, di un’esistenza umile e sofferta che ha patito una guerra, non si sa quale e poco importa, e quell’istantanea sbiadita, scattata con l’idea di essere recapitata ai propri cari, rimane per decenni nella giacenza del dimenticatoio, in una scatola qualunque, e sarebbe rimasta lì se non fosse che un piccolo miracolo chiamato cinema, prelevandola dalla polvere e donandole una nuova vita impegnandosi a raccontare la sua, ha deciso di darle il tributo sentimentale che meritava.

Ed è anche un viaggio Retour, come se non fosse altro, come se non ci fosse altro, viaggiare, attraverso un’Europa che si converte in diapositive sfuggenti e sfocate, in notti dove è meglio stringere a sé il bagaglio, e in suoni che un tappeto musicale riverbera al quadrato in un babelico vociare di idiomi incomprensibili, e poi in incontri, che non vediamo, perché, che lo si sappia, non si vede granché, però si immagina perché un viaggio è questo, è la libertà di avvicinarsi all’ignoto avendo l’opportunità di riempirci la solitudine con la vicinanza di altri che appena tocchiamo (la donna russa e la sua spiegazione sull’instabilità dei convogli ferroviari), ma questo è un viaggio che non riguarda un banale movimento spaziale, è ben di più, è un nostos by train che riallaccia un filo tranciato così tanti decenni fa che in mezzo c’è stata una contro-migrazione verso la Francia e l’annessa edificazione di un altro esistere, lontano da Taiwan, e quindi Huang, regista del corto e regista di se stesso, e quindi lui, nipote immigrato di seconda generazione, e quindi noi, spettatori con i nostri nonni immortalati a loro volta in vecchie foto ingiallite, e perciò tutti, ora e sempre impegnati in un viaggio che trascende i chilometri e gli anni per arrivare, forse, ad una meta: “mi trovo sulla spiaggia di Xiamen, la città più vicina a casa mia, e dall’altra parte del mare, là, c’è la mia terra natale”.

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