venerdì 24 aprile 2020

My Brother's Name Is Robert and He Is an Idiot

Noto in giro che parecchi siti italiani hanno letteralmente massacrato Mein Bruder heißt Robert und ist ein Idiot (2018) di Philip Gröning, eviterò di fare un ragionamento un po’ tendenzioso del tipo, ehi, non è che il regista ha voluto esattamente suscitare in voi il disprezzo e l’irritazione che avete provato durante la visione? No, mi pare sia una veduta troppo cieca, limitata, soprattutto per un film del genere che mette in collisione delle altezze esistenzialistiche con delle orripilanti bassezze. A mio modo di vedere l’opera di Gröning rappresenta una bella sfida, ardua, sì, ma bella, il che non significa che My Brother’s Name... sia un bel film, come non si nega che valga almeno la pena rifletterci sopra. Le similitudini con il precedente La moglie del poliziotto (2013) ci sono, in particolare in quello che pare essere uno degli obiettivi di Gröning, ovvero raccontarci il lato oscuro dell’essere umano e la violenza che in lui alberga, la differenza tra le due pellicole sta nelle modalità che ci fanno pervenire a tale disamina: il lavoro del 2013 aveva una struttura più immediata e si prestava ad una lettura più accessibile, lì c’era un claustrofobico ritratto di violenza domestica, punto, era, se permettete, facile arrivare ad una comprensione perché era parimenti semplice (tra virgolette, parliamo comunque di un monolite autoriale di quasi tre ore) accettare il disegno globale, ok, in estrema sintesi Gröning aveva voluto mostrarci la brutalità maschile dentro una relazione avariata. Qui le cose sono maggiormente complicate, sì il punto di arrivo è equiparabile (abbiamo di nuovo un rapporto famigliare al centro della scena e nuovamente da questo rapporto erutta una ferocia incontrollabile), però la prima sensazione è che manchino delle basi forti, delle valide premesse che possano legittimare l’escalation di cattiveria. Ciò lo si pensa subito, stizziti, a caldo, ma dopo, immergendoci ulteriormente nella questione, altre porte interpretative con annessi interrogativi si spalancano.

Un male che pare affliggere My Brother’s Name... riguarda l’ostinato mood filosofico che la sceneggiatura (scritta insieme a Sabine Timoteo che si è occupata di tratteggiare Elena) ha cucito sui due protagonisti, non possiedo le competenze necessarie per sostenere se il per nulla stupido Robert dica delle panzane o meno, ma tutto il suo ciarlare risulta vacuo e ridondante, sterile, futile, incompatibile con la deriva sanguinolenta che prenderanno i fratelli. Tempo, esistenza, speranza, vita, morte, argomenti di un certo livello che passano così, come slogan per riempirsi la bocca o per infarcire di contenuti un oggetto filmico che, mettendo poi in scena stupri e omicidi, li annienta in un istante, eppure puntare erroneamente il dito su una falsa intellettualità o su un’immotivata malignità sono accuse che senza pensarci troppo è quasi automatico sostenere, e lo dico pur ammettendo che Gröning si lascia andare a delle gratuità dove in effetti si può comprendere l’indignazione di quel pubblico che a Berlino ’18 abbandonò la sala prima della fine (sicuramente la sequenza dell’incesto avrà dato il colpo di grazia), io invece proporrei di concentrarci un attimo su Robert ed Elena. Chi sono? Dove sono? Dove stanno andando? Sono due ragazzetti (non all’anagrafe del reale, lui è dell’89 mentre lei dell’83) ed essendo tali, proprio nella loro ontologia, vivono un tornado indefinibile di sentimenti, e lo dico subito: dall’angolazione del film generazionale Gröning se l’è giocata alla grande perché ha mimetizzato la spinta coming of age in un calderone di tematiche che sviano l’attenzione.

In realtà, almeno la realtà che ci ha visto chi scrive, il legame tra i due gemelli, le interazioni che hanno, a volte tenere a volte iraconde, il momento di passaggio che stanno vivendo (lei è in procinto di dare l’ultimo esame, lui dovrà andare o tornare in Spagna), gli impulsi sessuali e gli amori tormentati, la gelosia, l’attaccamento, la morbosità, la fiducia, il venirsi incontro (immagine chiave del film), sono gli indicatori di un termometro adolescenziale che sale e che scende al di là di ogni possibile controllo, più che due persone provenienti dal medesimo grembo, sono i simboli dell’età che hanno e del periodo che vivono. Se poi li caliamo nell’ambiente pensato da Gröning (e anche costruito, non trovando una location adatta ha deciso di edificarsela), anonimo ed ignoto, ecco che l’intera vicenda assume caratteristiche astratte, ci sono Robert ed Elena, ma fino ad un certo punto, quello che li spersonalizza, che li fa dimettere dai ruoli che hanno, che li fa diventare due acerbe entità in preda all’istinto senza perdere la cifra immaginifica della giovinezza (Elena, pur avendo ucciso a sangue freddo il benzinaio, ripeterà con convinzione che la pistola è finta), uccidere, amarsi, sono solo giochi (non c’è differenza tra sparare con il super liquidator e con una rivoltella vera), tra una pagina di Heidegger e l’altra, tra il piacere di essere liberi e il desiderio di essere adulti (il rossetto). Anche da una prospettiva esegetica come quella appena descritta, Gröning calca la mano sul fatto che, sebbene in una dimensione concettuale, la frontiera dell’umano a cui è interessato rimane il buco nero di una violenza insita anche in due soggetti inizialmente insospettabili perché affrancati dalle brutture di un’adultità che invece arriva inesorabile con quell’ultimo sguardo in camera, figlio del medesimo che chiudeva La moglie del poliziotto, dove Elena in lacrime, in una presa di coscienza, a transizione appena avvenuta, si e ci chiede: ma che cosa abbiamo fatto?

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