giovedì 16 aprile 2020

Poet on a Business Trip

La curiosità prima della visione nei riguardi di Shi ren chu chai le (2015) nasceva dal fatto che questo film fu girato nel lontano 2002 dal cinese Anqi Ju, regista classe ’75 che tenne la sua creatura in naftalina per più di dieci anni a causa di insufficienze economiche relative alla fase post-produttiva; viene subito da pensare che non sarà questo l’unico caso di oblio prolungato nell’ultra centenaria storia del cinema però si può dire che non sia nemmeno un evento all’ordine del giorno e pertanto è da qui che poteva muoversi un iniziale fascino verso la pellicola, purtroppo mi sento di affermare a titoli di coda terminati che l’interesse preliminare non trova un riscontro pratico nell’effettivo svolgimento del film. Di scusanti per Anqi ce ne sarebbero a iosa, d’altronde parliamo di un lavoro davvero minimale che sposta l’ago della catalogazione dal professionismo ad un altro step che potrebbe essere quello degli avanguardisti, zero troupe, zero (o quasi script), una videocamera, un tizio conosciuto in un locale underground per poeti arruolato come “attore”, tuttavia non vi sono affatto mire sperimentali, anzi la traiettoria persguita è quella di un reale asciutto e senza manipolazioni eccessive (a parte il b/n e la sovrimpressione delle poesie che scorrono sullo schermo), più Anqi Ju si sintonizza sulle frequenze umane e naturalistiche più il suo disegno si fa evidente: captare un malinconico pellegrino nell’aspro paesaggio della Cina settentrionale abitata da contadini, albergatori di frontiera e camionisti in cerca di bordelli, e la questione meretricia pare avere un peso importante nell’opera, lo rimarca il regista in un’intervista (link), lo capiamo da noi annotando la somiglianza tra l’inizio e la fine.

Tutto, sulla carta, alquanto stuzzicante, eppure Poet on a Business Trip rende faticosa la sua proiezione, non ha tiro, scorre, tedia, non tocca, e proprio nell’area emotiva fallisce ogni intento. Perché va bene l’idea di un road movie atipico con annesso, lesto, ritratto degli abitanti locali e delle bellezze geografiche, ma, come da manuale, un viaggio non è tale se il movimento pur esplicitandosi esternamente mantiene una controparte invisibile diretta invece nell’animo dell’uomo. Nel film un moto del genere è intuibile e vi sarebbero anche gli elementi adatti ad una conseguente manifestazione, infatti parliamo comunque di un poeta che erra per luoghi desolati in cerca di un senso ampio come la vita divisa tra piccolezze e infinitezze, ma risulta doveroso sottolineare che l’auspicata dimensione intima non trova alcun sbocco concreto, è come se della profondità appena avvertita rimanesse un’illustrazione bidimensionale, non si riesce ad andare nell’oltre, né a far sì che l’oltre converga in noi. Sono critiche banali? Sterili? Vuote? Quando un film ha del potenziale non sfruttato il rapporto con esso si fa conflittuale, forse è peggio ancora di trovarsi al cospetto di un brutto film tout court, “poteva...”, “se...”, “eeh...”, dei micro-rimpianti riempiono queste ultime parole, ma in fondo di che rimpianti si tratta? Suvvia, avanti col prossimo che il girovagare di Shu è già un pallido ricordo.

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