La
curiosità prima della visione nei riguardi di Shi
ren chu chai le (2015) nasceva dal
fatto che questo film fu girato nel lontano 2002 dal cinese Anqi Ju,
regista classe ’75 che tenne la sua creatura in naftalina per più
di dieci anni a causa di insufficienze economiche relative alla fase
post-produttiva; viene subito da pensare che non sarà questo l’unico
caso di oblio prolungato nell’ultra centenaria storia del cinema
però si può dire che non sia nemmeno un evento all’ordine del
giorno e pertanto è da qui che poteva muoversi un iniziale fascino
verso la pellicola, purtroppo mi sento di affermare a titoli di coda
terminati che l’interesse preliminare non trova un riscontro
pratico nell’effettivo svolgimento del film. Di scusanti per Anqi
ce ne sarebbero a iosa, d’altronde parliamo di un lavoro davvero
minimale che sposta l’ago della catalogazione dal professionismo ad
un altro step che potrebbe essere quello degli avanguardisti, zero
troupe, zero (o quasi script), una videocamera, un tizio conosciuto
in un locale underground per poeti arruolato come “attore”,
tuttavia non vi sono affatto mire sperimentali,
anzi la traiettoria persguita è quella di un reale asciutto e senza
manipolazioni eccessive (a parte il b/n e la sovrimpressione delle
poesie che scorrono sullo schermo), più Anqi
Ju si sintonizza sulle frequenze umane e naturalistiche più il suo
disegno si fa evidente: captare un malinconico pellegrino nell’aspro
paesaggio della Cina settentrionale abitata da contadini, albergatori
di frontiera e camionisti in cerca di bordelli, e la questione
meretricia pare avere un peso importante nell’opera, lo rimarca il
regista in un’intervista (link), lo capiamo da noi annotando la
somiglianza tra l’inizio e la fine.
Tutto,
sulla carta, alquanto stuzzicante, eppure Poet
on a Business Trip rende
faticosa la sua proiezione, non ha tiro, scorre, tedia, non tocca, e
proprio nell’area emotiva fallisce ogni intento. Perché va bene
l’idea di un road movie atipico con annesso, lesto, ritratto degli
abitanti locali e delle bellezze geografiche, ma, come da manuale, un
viaggio non è tale se il movimento pur esplicitandosi esternamente
mantiene una controparte invisibile diretta invece nell’animo
dell’uomo. Nel film un moto del genere è intuibile e vi sarebbero
anche gli elementi adatti ad una conseguente manifestazione, infatti
parliamo comunque di un poeta che erra per luoghi desolati in cerca
di un senso ampio come la vita divisa tra piccolezze e infinitezze,
ma risulta doveroso sottolineare che l’auspicata dimensione intima
non trova alcun sbocco concreto, è come se della profondità appena
avvertita rimanesse un’illustrazione bidimensionale, non si riesce
ad andare nell’oltre, né a far sì che l’oltre converga in noi.
Sono critiche banali? Sterili? Vuote? Quando un film ha del
potenziale non sfruttato il rapporto con esso si fa conflittuale,
forse è peggio ancora di trovarsi al cospetto di un brutto film tout
court, “poteva...”, “se...”, “eeh...”, dei
micro-rimpianti riempiono queste ultime parole, ma in fondo di che
rimpianti si tratta? Suvvia, avanti col prossimo che il girovagare di
Shu è già un pallido ricordo.
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