martedì 5 gennaio 2010

The Roe's Room

Lech Majewski è un regista, poeta, compositore e pittore nato in Polonia nel 1953 ma residente negli Stati Uniti dal 1981. Autore sperimentale, ama fondere diverse discipline nelle sue produzioni, tra le quali si può ricordare Basquiat (1996, nelle vesti di soggettista), oppure Life Hurts (1999) che racconta la vita del controverso poeta polacco Rafał Wojaczek, senza dimenticare Glass Lips (2007) opera composta da 33 video sull’infanzia di un giovane poeta che furono presentati alla 52 ° Biennale di Venezia con il titolo Blood of a Poet. Per questo Pokój saren (titolo originale, 1998), Majewski compone tutte le musiche che sono la colonna portante del film poiché ci troviamo dinanzi ad un’opera, definita autobiografica dallo stesso autore, che può essere considerata sotto certi punti di vista una vera e propria opera lirica tanto poetica e bella da vedere quanto indecifrabile nella sua sostanza.
Ciò che noi vediamo è una famiglia composta da un padre anziano, una madre e il loro figlio, vivere la quotidianità della vita all’interno del proprio appartamento, mentre in sottofondo scorrono le carambole musicali dell’orchestra sinfonica accompagnate dalle potenti voci che descrivono (più o meno, molto meno che più) ciò che accade.
L’impostazione registica è molto particolare, sfruttando il fatto di aver costruito una sorta di opera lirica, Majewski filma il tutto con occhio teatrale; quasi tutte le scene sono riprese attraverso carrellate che si muovono in orizzontale proprio come se si stesse assistendo ad uno spettacolo in teatro e il nostro sguardo si muovesse da un punto all’altro del palco. Gli unici momenti di stacco sono costituiti dal primo piano del figlio sovrapposto ad una inquadratura in movimento sullo sfondo che fa molto Medea (1988) trieriana.
Il film si costituisce in quattro parti corrispondenti alle rispettive stagioni dell’anno. Partendo dalla primavera il regista pone un parallelo tra la vita e la natura, con il procedere del tempo all’interno della casa nasce della fitta vegetazione che verrà estirpata dal padre con una falce che si tramuta in sinistro presagio di morte. Morte che inevitabilmente arriva con il gelo dell’inverno.

Questa è una mia superficiale interpretazione in quanto in un film come The Roe’s Room ognuno ci vede un po’ quello che vuole grazie alla sua costruzione suggestiva, al pari dell’ungherese Hukkle (2002) che con il film di Majewski ha forse più di un punto in comune. Tuttavia all’innegabile bellezza visionaria di alcune situazioni, non posso non rimarcare quello che per me è un difetto macroscopico: non c’è una storia, non c’è il racconto. Sono solo tanti quadri, anche belli per carità, messi in sequenza. In altre parole non esiste una trama, e senza una logica nell’intreccio degli eventi accade che un autore possa sbizzarrirsi nell’inserire le stranezze più strane che gli vengono in mente, come chessò… mettere dei cerbiatti che brucano l’erba nella casa.
Purtroppo se manca il tessuto narrativo è difficile che riesca a digerire un’opera, anche se ammaliante come questa. Preferisco una storia banale ma raccontata bene, che una storia originale raccontata male. Questo è quanto.

7 commenti:

  1. Sono d'accordo con te, questo film non l'ho visto, ma di destrutturazione cinematografica non se ne può più e poi l'apice è stato raggiunto già negli anni Trenta...molto più importante nel cinema contemporaneo è sapere raccontare in maniera coinvolgente una storia...è più difficile fare un film alla Eastwood che alla Matthew Barney...
    Samuele (Scaglie)

    RispondiElimina
  2. Voi di Scaglie ce l'avete di brutto con Barney :D (a ragione mi sa). Destrutturare ok, ma con giudizio!

    RispondiElimina
  3. ciaose non l'hai già visto sul mio blog ho messo PROLOGUE 5 minuti fdi tarr bekla..gli fu commissionato un filmato sull'europa che nasceva..fece questo..buttaci un occhio
    ciao

    RispondiElimina
  4. un film di difficile visione, a volte ti impone il germe della lentezza mentre i tuoi pensieri scorrono veloci come un fiume, le stagioni (della vita) dettano il ritmo del nostro guardare e dell'ascolto (la scena della fonte alla quale tendono i personaggi è quasi profetica) .. majewski non impone una visione di cervello e memoria, lascia scivolare gli sguardi affinchè restino aggrappati a ciò che è talmente evidente, reale che non abbiamo mai avuto la forza di considerare parte di noi ...

    insieme a glass lips, siamo nell'ambito di capolavori inarrivabili

    RispondiElimina
  5. parli di the mill and the cross?
    arrivarci da profani, ingolositi dal vergognoso titolo italiano è un peccato, bisogna affinare lo sguardo con le sue opere precedenti ed essere consci della poetica mai unilaterale dell'arte di majewski: l'immagine non è mai statica ma dinamica (e i colori anche neutri indicano un continuo tumulto dei sensi), la musica non appunta i gesti dei protagonisti ma è viva ferita che smuove gli attori in scena, la camera sembra fissare un punto, destrutturarlo e poi si allarga come una ragnatela per imprigionare dettagli e significati che crescono e si affermano senza sosta ...

    guardare, rigorosamente al cinema, il film non solo ti conduce in un'altra dimensione ma fa ripensare il proprio spettro visivo: c'è molto di più della semplice rappresentazione di come nasce un'opera d'arte, si fa fatica a distinguere distanze e realtà, fossi nel regista sarei davvero curioso di quale possa essere il nuovo limite da oltrepassare: mai dubitare della genialità, mai saziarsi della necessaria curiosità ...
    se non l'hai visto è d'obbligo recuperarlo il prima possibile

    RispondiElimina
  6. Concordo con te sull'affinare lo sguardo. Mai affrontare senza visioni pregresse il film di un autore importante, c'è sempre il rischio di prendere una cantonata (cosa che io, al tempo in cui vidi The Roe's Room, temo di non essere riuscito a dribblare).
    Ho letto cose magnifiche su The Mill and the Cross e in effetti solo che a sbirciare la trama la curiosità sale. Recupererò. Ma solo dopo aver approfondito Majewski.

    RispondiElimina